Le Guide del Tramonto Arthur C. Clarke Per sei giorni le immense astronavi, silenziose e immobili, restarono sospese sulle metropoli della Terra. Poi vennero gli ordini, e ai terrestri non restò che obbedire. Ma per ani e anni nessuno potè vederli, gli Esseri venuti con le astronavi. Nessuno poté sapere chi erano. Per quale misteriosa ragione "Essi" non volevano essere conosciuti? Forse perchè (ma nessuno lo sospettò) non volevano essere "riconosciuti"? Un classico della fantascienza che è anche un classico del suspense. Arthur C. Clarke Le guide del tramonto (Childhood’s End, 1953) traduzione di Giorgio Monicelli. PROLOGO Il vulcano che aveva tratto Taratua dalle profondità del Pacifico dormiva ormai da mezzo milione d’anni. Pure, fra non molto, pensava Reinhold Hoffmann, l’isola sarebbe stata avvolta da fiamme più ardenti di quelle che avevano battezzato la sua nascita. L’uomo volse lo sguardo verso la base di lancio e percorse con gli occhi l’impalcatura che circondava il «Columbus». A settanta metri dal suolo, la prua dell’astronave si bagnava negli ultimi raggi del sole al tramonto. Quella era una delle ultime notti che essa avrebbe conosciuto: tra breve sarebbe stata sospesa nella luce del sole che splende eternamente nello spazio interplanetario. Si stava bene lì, sotto le palme che crescevano alte lungo una linea ideale che percorreva l’isola longitudinalmente. Gli unici rumori che venivano dalla base del Progetto erano il ronzio di un compressore o la voce di un tecnico. Reinhold era sempre stato orgoglioso di quelle palme, e quasi ogni sera andava lì a sorvegliare il suo piccolo regno. Lo rattristava l’idea che i suoi alberi sarebbero stati ridotti in cenere quando il «Columbus» si sarebbe alzato su una furia di fuoco per salire alle stelle. A due chilometri dai frangenti, la «James Forrestal» aveva acceso i riflettori, e i potenti fasci di luce bianchissima spazzavano le acque nere. Il sole era scomparso del tutto, ora, e la veloce notte dei tropici precipitava la sua corsa da oriente. Reinhold si chiese, sarcastico, se la portaerei si aspettava di trovare sub russi così vicini alla costa. Il pensiero della Russia gli ricordò, come sempre, Konrad e quel mattino della catastrofica primavera del 1945. Erano passati più di trent’anni, ma il ricordo di quegli ultimi giorni, quando il Reich cadeva in rovina sotto le ondate che lo investivano da oriente e da occidente, non si era mai offuscato. Vedeva ancora gli azzurri occhi stanchi di Konrad, la faccia coperta da una peluria dorata, quando si erano stretti la mano dicendosi addio tra le rovine d’un villaggio prussiano, coi profughi che passavano in una lunga fila interminabile. Il loro addio aveva simboleggiato quello che era poi avvenuto nel mondo: la frattura tra Est e Ovest. Konrad aveva scelto la strada di Mosca, e Reinhold, allora, aveva pensato che era pazzo, ma adesso non ne era più tanto convinto. Per trent’anni aveva creduto che Konrad fosse morto. Ma, una settimana prima, il colonnello Sandmeyer del Servizio Segreto gli aveva dato la notizia. Sandmeyer non gli piaceva, e probabilmente l’antipatia era reciproca. Ma i sentimenti personali non c’entravano col lavoro. «Signor Hoffmann» aveva cominciato il colonnello, in tono molto ufficiale «ricevo ora da Washington delle informazioni alquanto preoccupanti. Abbiamo deciso di comunicarle al personale tecnico perché capisca che bisogna accelerare i tempi.» Aveva fatto una pausa a effetto, sprecata con Reinhold, il quale prevedeva già il seguito, «I russi sono quasi alla pari con noi. Dispongono di una specie di propulsione atomica, che potrebbe essere anche più potente ed efficace del nostro sistema di propulsione, e stanno costruendo un’astronave sulle rive del lago Baikal. Non sappiamo a che punto siano, ma i nostri servizi di spionaggio pensano che il lancio possa avvenire entro l’anno. Sapete che cosa significa.» Sì, aveva pensato Reinhold, lo so. La gara è cominciata, e noi possiamo anche perderla. «Si sa per caso chi dirige i lavori?» aveva chiesto, con poca speranza di avere una risposta. Invece, il colonnello Sandmeyer aveva spinto verso di lui un foglio con un elenco di nomi. Il primo era quello del suo vecchio amico: Konrad Schneider. «Conoscevate quasi tutti quelli di Peenemünde, vero?» aveva detto il colonnello. «Vi sarei grato di farmi avere per ognuno il maggior numero possibile di dati: le loro specialità, le idee migliori che avevate sentito formulare a suo tempo, e così via. So che può sembrare una richiesta esagerata, dopo tanti anni, ma vedete un po’ di fare quello che potete.» «L’unico veramente importante è Konrad Schneider» aveva risposto Reinhold. «Era un uomo geniale. Gli altri erano soltanto ingegneri ben preparati. Dio solo sa che cosa può aver fatto in trent’anni. Non dimentichiamo che lui aveva la possibilità di essere informato di ogni nostro progresso, mentre noi ignoriamo tutto dei suoi risultati. Questo lo mette in netto vantaggio su di noi.» Non c’era stata nessuna intenzione in lui di muovere critiche ai Servizi Segreti, ma per un istante il colonnello si era irrigidito. Poi Sandmeyer aveva scosso la testa. «È come una lama a due tagli… l’avete detto anche voi più di una volta. Il libero scambio di informazioni scientifiche permette progressi più rapidi, anche se implica per noi la divulgazione di qualche segreto scientifico. Probabilmente, i dipartimenti russi per le ricerche scientifiche non sanno come i loro tecnici impieghino metà del tempo. Noi mostreremo loro che la Democrazia giungerà prima sulla Luna.» Democrazia… che fesserie! aveva pensato Reinhold, ma si era guardato bene dal dirlo. Un solo Konrad Schneider valeva milioni di nomi su una lista elettorale. Che cosa aveva fatto, in trent’anni, Konrad, con le risorse dell’URSS? Forse, in quello stesso momento, la sua astronave filava già nello spazio, libera dall’attrazione terrestre… Il sole aveva abbandonato Taratua, ma era ancora alto nel cielo sopra il lago Baikal, quando Konrad Schneider e il vice commissario per le Scienze Nucleari uscirono lentamente dal capannone dove venivano provati i motori. Avevano nelle orecchie ancora il rombo assordante, sebbene l’ultima eco si fosse spenta in un muggito prolungato sulle acque del lago da una decina di minuti. «Perché così serio?» chiese Grigorievic. «Dovresti essere contento. Fra un mese noi saremo in viaggio nello spazio cosmico, e gli yankee soffocheranno di rabbia.» «Ottimista come al solito» disse Schneider. «Anche se i motori funzionano, non sarà tanto semplice, credimi, e le notizie che abbiamo di Taratua mi preoccupano. Ti ho detto più volte che Hoffmann è un uomo di qualità eccezionali, e per di più può contare su miliardi di dollari. Le fotografie della sua astronave non erano molto chiare, ma sembra che sia quasi ultimata. Inoltre, Hoffmann ha finito le prove dei motori cinque settimane fa.» «Oh, non preoccuparti» rise Grigorievic. «Sono gli americani, vedrai, che avranno la più grande sorpresa della loro storia. Ricordati, loro non sanno niente dei nostri progetti.» Schneider si chiese se fosse vero, ma non osò esprimere dubbi. Avrebbe potuto mettere in moto la mente di Grigorievic per sentieri troppo tortuosi, e se alla fine si fosse scoperta una falla, lui si sarebbe trovato nei guai per chiarire la sua supposizione. La sentinella li salutò quando rientrarono nella palazzina della direzione. Schneider pensò che il personale militare era quasi più numeroso di quello tecnico. Ma questo era il sistema dei russi, e finché non gli davano fastidio, lui non aveva motivo di lamentarsi. Fino a quel momento, nel complesso, a parte qualche sporadico episodio esasperante, le cose erano andate meglio di quanto avesse sperato. Ma, in definitiva, solo il futuro avrebbe stabilito se aveva scelto meglio lui o Reinhold. Stava già lavorando sulla sua relazione finale, quando fu distratto da un vocio disordinato. Per qualche istante rimase seduto immobile alla sua scrivania, a chiedersi quale inconcepibile evento poteva aver distrutto la rigida disciplina della base. Poi andò alla finestra, e per la prima volta in vita sua conobbe veramente la disfatta e la disperazione. Scendere lungo il fianco della piccola altura, pensò Reinhold, era come camminare in mezzo alle stelle. Al largo, la «Forrestal» continuava a spazzare le acque con i fari, mentre sulla spiaggia la rampa di lancio del «Columbus» si era trasformata in un albero di Natale sfavillante di luci. Solo la prua dell’astronave era un’ombra scura sullo sfondo delle stelle. Dagli alloggiamenti una radio diffondeva musica da ballo, e senza accorgersene Reinhold accelerò il passo seguendo il ritmo del ballabile. Era quasi arrivato allo stretto sentiero oltre il quale cominciava la distesa sabbiosa, quando un presentimento, o forse un rapido moto colto di sfuggita, lo fece fermare di colpo. Perplesso, spinse lo sguardo dalla costa dell’isola al mare aperto, e poi di nuovo sulla spiaggia. Passò qualche secondo prima che pensasse di alzare gli occhi al cielo. E allora Reinhold Hoffmann seppe, come l’aveva saputo Konrad Schneider nello stesso istante, d’aver perso la gara. E seppe di averla persa non per qualche settimana, o qualche mese di ritardo, come aveva temuto, ma per migliaia e migliaia di anni. Le immense forme che si muovevano silenziose fra le stelle, a un’altezza che Reinhold non osò nemmeno calcolare, erano di tanto più progredite rispetto al suo piccolo «Columbus» di quanto lo era il «Columbus» al confronto delle canoe dell’uomo paleolitico. Per un attimo che parve eterno, Reinhold stette a guardare, come stava guardando tutto il mondo, le grandi astronavi che scendevano verso la Terra in tutta la loro schiacciante maestosità, e poi sentì l’urlo dell’aria colpita dal loro passaggio nella rarefatta stratosfera. Non ebbe rimpianti per il lavoro di tutta una vita spazzato via in un attimo. Aveva lottato per portare l’uomo tra le stelle, e, al momento di cogliere il successo, le stelle, le remote, altere stelle indifferenti, erano andate da lui. Era, quello, uno dei momenti in cui la storia trattiene il respiro, e il presente si stacca dal passato come un iceberg che rompe ogni legame col monte di ghiaccio in cui è cresciuto per andarsene da solo per l’oceano, orgoglioso della propria autosufficienza. Tutto ciò che era stato fatto nei secoli passati, non aveva più valore, ora. Un solo pensiero riecheggiava nel cervello di Reinhold: la razza umana non era più sola. PARTE PRIMA LA TERRA E I SUPERNI 1 Il Segretario Generale delle Nazioni Unite stava immobile davanti alla grande finestra a guardare il traffico, giù, nella Quarantatreesima Strada. A volte si chiedeva se era un bene lavorare a tale altezza al di sopra dei propri simili. Un certo distacco ci voleva, ma poteva portare molto facilmente all’indifferenza. O era quello un tentativo di razionalizzare la sua antipatia per i grattacieli, ancora viva in lui dopo vent’anni di permanenza a New York? Sentì aprire la porta, ma non si voltò quando Pieter van Ryberg entrò nella stanza. Ci fu l’inevitabile pausa, mentre Pieter guardava con aria di disapprovazione il termostato: il fatto che al Segretario Generale piacesse vivere in un frigorifero era fonte di continue ironie. Stormgren attese che l’assistente lo raggiungesse alla finestra, prima di staccare lo sguardo dal panorama familiare ma sempre affascinante della strada. «I nostri amici sono in ritardo» disse. «Wainwright dovrebbe essere già qui da cinque minuti.» «Ho avuto notizie adesso dalla polizia. Wainwright è seguito da un vero corteo che ha prodotto un ingorgo nel traffico. Ma dovrebbe arrivare da un momento all’altro.» Pieter van Ryberg fece una pausa, poi domandò bruscamente: «Siete sempre convinto che sia stata una buona idea accettare questo incontro?» «Temo che sia un po’ tardi, ormai, per fare marcia indietro. Dopo tutto, ho accettato, anche se sapete che non è mai stata un’idea mia.» Stormgren si era avvicinato alla scrivania e si stava gingillando col suo fermacarte d’uranio. Non era nervoso o preoccupato, ma soltanto perplesso. Inoltre, era contento del ritardo di Wainwright: gli avrebbe dato un leggero vantaggio morale quando il colloquio avesse avuto inizio. Banalità di questo genere avevano, nelle vicende umane, una importanza maggiore di quanto potesse desiderare chiunque fidasse nella logica. «Eccoli!» disse a un tratto Van Ryberg, premendo la faccia contro il vetro della finestra. «Stanno arrivando dalla Avenue… saranno almeno tremila…» Stormgren prese il suo taccuino e tornò alla finestra. A meno di un chi-lometro di distanza una folla decisa muoveva lentamente verso il Palazzo del Ministero. Inalberava cartelli con scritte, indecifrabili a quella distanza. Ma Stormgren le conosceva già. Dalla strada, sopra il rumore del traffico, venivano le voci dei dimostranti, minacciose nello scandire dei loro slogan. Possibile che il mondo non ne avesse avuto ancora abbastanza di cortei di protesta e di slogan arrabbiati? La turba era giunta davanti al palazzo. Probabilmente sapevano che lui stava guardando la manifestazione, perché qua e là dei pugni vennero agitati in alto, convulsi. Non intendevano sfidare lui, anche se il gesto era fatto con l’intenzione che Stormgren lo vedesse. Come i pigmei che minacciavano un gigante, quei pugni erano puntati contro un punto del cielo cinquanta chilometri al di sopra delle loro teste, contro una rilucente sagoma argentea: la nave ammiraglia della flotta dei Superni. E, molto probabilmente, pensò Stormgren, Karellen stava osservando tutto quel che succedeva e si divertiva enormemente, perché quella manifestazione non sarebbe avvenuta senza il consenso del Controllore. Quella era la prima volta che Stormgren s’incontrava col capo della Lega della Libertà. Aveva smesso di chiedersi se il passo fosse saggio, dato che i piani di Karellen erano spesso troppo sottili per un’intelligenza semplicemente umana. Nella peggiore delle ipotesi, però, a Stormgren non pareva che da quella iniziativa potesse venire un danno. Invece, se avesse rifiutato di vedere Wainwright, la Lega si sarebbe servita del rifiuto contro di lui. Alexander Wainwright era un bell’uomo, alto, sulla cinquantina. E, come risultava a Stormgren, era onesto, quindi doppiamente pericoloso. Ma la sua sincerità evidente impediva di provare antipatia per lui, qualunque fossero i sentimenti verso la sua causa e verso una parte dei suoi seguaci. Dopo la presentazione di Van Ryberg, Stormgren entrò subito in argomento. «Immagino» cominciò «che lo scopo principale della vostra visita sia una protesta ufficiale contro il Progetto della Federazione. Esatto?» Wainwright annuì gravemente. «Questo è lo scopo principale, infatti, signor Segretario. Come sapete, negli ultimi cinque anni abbiamo cercato di aprire gli occhi alla razza umana perché vedesse il pericolo che la minaccia. Il compito è stato difficile, perché la maggior parte degli esseri umani sembra contenta che i Superni dominino il mondo a loro piacere. Tuttavia, oltre cinque milioni di patrioti hanno firmato la nostra petizione.» «Non mi sembrano poi molti di fronte a due miliardi e mezzo di esseri umani.» «È comunque una cifra di cui non si può non tener conto. E, per ogni persona che ha firmato, ne esistono molte che nutrono dubbi profondi sulla saggezza, per non dire la giustizia, del piano della Federazione. Lo stesso Supercontrollore Karellen, nonostante i suoi immensi poteri, non può annullare con un colpo di spugna millenni di storia.» «Chi conosce realmente i poteri di Karellen?» disse Stormgren. «Quand’ero ragazzo, la Federazione Europea era un sogno, ma era una realtà quando divenni uomo. E ciò fu prima dell’arrivo dei Superni. Karellen sta semplicemente ultimando l’opera.» «L’Europa era un’entità cultuale e geografica. Il mondo intero, no. Questa è la differenza.» «Per i Superni» rispose Stormgren, sarcastico «la Terra è probabilmente molto più piccola di quanto non lo fosse l’Europa agli occhi dei nostri padri… e il loro punto di vista, direi, è più maturo del nostro.» «Io non sono contro la Federazione per principio, nonostante il parere di molti sostenitori della Lega. Ma penso che la decisione debba venire da noi e non esserci imposta dall’esterno. Dobbiamo essere noi a decidere il nostro destino. Basta con le interferenze nelle faccende del genere umano!» Stormgren sospirò. Argomenti simili li aveva sentiti centinaia di volte, ma poteva solo dare la stessa risposta che la Lega della Libertà aveva già rifiutato. Lui aveva fede in Karellen, e loro no. Questa era la differenza fondamentale, e lui non poteva farci niente. «Permettetemi di farvi un paio di domande» disse. «Potete negare che i Superni abbiano portato pace, prosperità e sicurezza al nostro pianeta?» «Non lo nego. Però ci hanno tolto la libertà. L’uomo non vive…» «… di solo pane, lo so. Ma è la prima volta nella sua storia che ogni uomo ha la certezza di averlo, il pane. E comunque, che cosa è la libertà che abbiamo perduto, in confronto a ciò che i Superni ci hanno dato per la prima volta nella storia del genere umano?» «La libertà di vivere secondo noi stessi, sotto la guida di Dio.» Finalmente, pensò Stormgren, siamo arrivati al punto. Fondamentalmente si tratta di un dissidio religioso, per quanto mascherato. Wainwright non permetteva mai di dimenticare che un tempo era stato uomo di chiesa. Ora non indossava più l’abito talare, ma si aveva sempre l’impressione che indossasse ancora la tonaca. «Il mese scorso» disse Stormgren «cento vescovi, cardinali e rabbini hanno firmato una dichiarazione nella quale confermavano il loro appoggio alla linea di condotta del Supercontrollore. Le religioni del mondo sono contro di voi.» Wainwright scosse la testa in un gesto rabbioso di diniego. «Molti capi sono ciechi: sono stati corrotti dai Superni. Quando si renderanno conto del pericolo, sarà troppo tardi. L’umanità avrà perso il suo spirito d’iniziativa e sarà diventata una razza schiava.» Seguì un breve silenzio, infine Stormgren rispose: «Fra tre giorni m’incontrerò di nuovo col Supercontrollore. Gli esporrò le vostre obiezioni perché è mio dovere metterlo al corrente delle opinioni dei terrestri, ma non cambierà niente, ve lo posso garantire.» «C’è un altro punto che vorrei chiarire» disse Wainwright, lentamente. «Sono molte le cose che non ci piacciono nei Superni, ma soprattutto detestiamo il mistero di cui si circondano. Voi siete il solo essere umano che abbia mai parlato con il Supercontrollore Karellen, ma anche voi non lo avete mai visto. Vi sorprende che si dubiti della sua buona fede?» «Nonostante tutto quello che ha fatto per l’umanità?» «Nonostante tutto quello che ha fatto. Non so che cosa ci disturbi di più, se l’onnipotenza di Karellen o il mistero di cui è avvolto. Se non ha niente da nascondere, perché non si è mai rivelato com’è? La prossima volta che parlerete col Supercontrollore, signor Stormgren, chiedeteglielo.» Stormgren non disse niente. Non c’era niente da dire, infatti. Niente, comunque, che avrebbe convinto Wainwright. Tanto più che Stormgren a volte dubitava di essere riuscito a convincere veramente se stesso. Dal loro punto di vista, si era trattato di una missione trascurabile, ma per i terrestri era l’evento più importante che li avesse mai colpiti. Non c’erano state avvisaglie quando le grandi astronavi avevano cominciato a scendere dalle sconosciute profondità dello spazio. Innumerevoli volte quel momento era stato descritto nelle opere di fantascienza, ma nessuno aveva mai creduto che un giorno potesse succedere veramente. Ma quel giorno era venuto: le lucenti sagome che ondeggiavano silenziose sopra ogni nazione erano il simbolo di un progresso scientifico che l’uomo non avrebbe raggiunto per chissà quanti secoli. Per sei giorni erano rimaste sospese nella più assoluta immobilità sulle metropoli della Terra, senza fare niente, quasi ne ignorassero l’esistenza. Ma non c’era bisogno che dimostrassero di sapere cosa c’era sotto di loro. Non poteva essere per caso che quelle astronavi si fossero fermate sopra New York, Londra, Parigi, Mosca, Roma, Città del Capo, Tokyo, Canberra… Anche prima che giungessero quei giorni di panico, qualcuno aveva intuito la verità. Quello non era che un primo tentativo di contatto da parte di una razza che ignorava tutto dell’uomo. Dentro le silenziose astronavi immobili, studiosi di psicologia stavano certamente esaminando le reazioni dei terrestri. E, quando la tensione sarebbe arrivata all’apice, allora avrebbero agito. Il sesto giorno, Karellen, Supercontrollore per la Terra, si fece conoscere agli uomini in una trasmissione radio che bloccò tutte le radiofrequenze. Parlò in inglese perfetto, scatenando discussioni che infuriarono oltre l’Atlantico per una generazione intera. Ma il significato del discorso fu più sbalorditivo della lingua usata per pronunciarlo. Fu indubbiamente il discorso di un genio che dimostrò di conoscere alla perfezione le questioni terrestri. Nessun dubbio che la virtuosità di quel discorso, gli accenni a conquiste scientifiche ancora lontane per l’uomo erano destinati a convincere il genere umano che si trovava di fronte a forze intellettuali infinitamente superiori, Quando Karellen ebbe finito, ogni nazione seppe che i suoi giorni di precaria sovranità erano finiti. I governi locali avrebbero conservato il potere, ma nel campo più vasto degli affari internazionali non sarebbero più stati gli uomini a decidere. Polemiche, proteste, fu tutto inutile. Naturalmente non ci si poteva aspettare che tutte le nazioni avrebbero accettato con passiva rassegnazione un tale limite ai loro poteri. Ma la ribellione aperta si rivelò irta di difficoltà, perché la distruzione delle astronavi dei Superni, ammesso che l’impresa fosse possibile, avrebbe comportato la distruzione delle città sotto di esse. Tuttavia, una delle grandi potenze aveva tentato, Forse quella nazione aveva sperato di prendere due piccioni… con un missile atomico, dato che il bersaglio era l’astronave sopra la capitale di una nazione confinante e ostile. Nel momento in cui l’immagine della grande astronave si dilatava sullo schermo televisivo della segreta sala d’operazioni, i militari e i tecnici presenti dovevano essere stati travolti dalle loro stesse emozioni. Se avessero raggiunto il loro scopo, cosa avrebbero fatto le altre astronavi? Si poteva distruggerle tutte restituendo all’umanità il suo libero arbitrio, o Karellen avrebbe scatenato una tremenda vendetta su chi lo aveva attaccato? Di colpo, nell’attimo in cui il missile si disintegrava all’impatto, l’immagine sparì dallo schermo e immediatamente passò ad una telecamera aerea lontana chilometri e chilometri. In quella frazione di secondo, la sfera di fuoco formatasi in seguito all’esplosione avrebbe dovuto riempire il cielo con la sua incandescenza. Invece non era successo niente. L’astronave si librava illesa, illuminata dal sole ai limiti dello spazio visibile. Non solo non era stata colpita, ma nessuno avrebbe saputo dire cosa fosse successo al missile. Karellen non prese nessun provvedimento contro i responsabili dell’attacco, e si sarebbe detto perfino che non se ne fosse accorto. Ignorò sdegnosamente il fatto lasciando i responsabili a tormentarsi nell’attesa di una rappresaglia che non venne mai. Un atteggiamento più efficace e più demoralizzante di qualsiasi azione punitiva. Poche settimane dopo, il governo responsabile entrò in crisi per le accuse reciproche dei suoi membri. C’era stata anche la resistenza passiva alla politica dei Superni. Karellen ne aveva avuto ragione col semplice espediente di lasciare che i ribelli agissero a modo loro scoprendo a loro spese che non collaborando danneggiavano soltanto se stessi. Solo in un’occasione Karellen era ricorso all’azione diretta nei riguardi di un governo recalcitrante. Da oltre cento anni, la Repubblica del Sud Africa era il centro di una accanita lotta razziale. Uomini di buona volontà dall’una e dall’altra parte avevano cercato di sanare la frattura, ma senza riuscirci: paure e pregiudizi erano radicati troppo profondamente in tutti per consentire la minima collaborazione fra le due parti. I vari governi che si erano succeduti erano differiti soltanto nel grado della loro tolleranza, e ormai il Paese era avvelenato dall’odio e dagli effetti della guerra civile. Quando fu chiaro che nessun tentativo sarebbe stato fatto per mettere fine alla discriminazione razziale, Karellen intervenne. Si limitò a comunicare una data: giorno e ora, niente di più. Ci fu un po’ di apprensione, ma né paura né panico, perché nessuno credeva che i Superni sarebbero ricorsi alla violenza o a una azione distruttiva che avrebbe coinvolto colpevoli e innocenti. E infatti non lo fecero. Tutto quello che accadde fu che il sole, passando il meridiano di Città del Capo, si spense. Rimase solo un pallido disco inerte che non mandava né luce né calore. Lassù nello spazio due campi incrociati avevano polarizzato la luce del sole impedendo il passaggio di qualsiasi radiazione. L’area interessata aveva un diametro di cinquecento chilometri ed era perfettamente circolare. La dimostrazione durò esattamente trenta minuti. Fu sufficiente: il giorno dopo, il governo del Sud Africa annunciò la reintegrazione dei pieni diritti civili alla minoranza bianca. A parte questi incidenti isolati, la razza umana aveva accettato i Superni come parte dell’ordine naturale delle cose. In un tempo straordinariamente breve, l’impressione iniziale si era attenuata fino a scomparire del tutto, e il mondo aveva ripreso la sua vita. Il maggior mutamento che un mitico Aligi, destatosi dopo un sonno secolare, avrebbe notato, era un’aspettativa in sordina, uno sbirciare mentale, in attesa che i Superni uscissero dalle loro lucenti astronavi per mostrarsi agli uomini. Cinque anni dopo, l’umanità stava ancora aspettando. Era questa, pensava Stormgren, la causa di tutti i guai. C’era il solito gruppo di curiosi, di giornalisti e di fotografi e di telecronisti, quando la macchina di Stormgren arrivò sulla pista dell’aeroporto. Il Segretario Generale scambiò alcune parole all’ultimo momento col suo assistente, prese la borsa di pelle e si avviò in mezzo a due ali di folla. Karellen non lo faceva mai aspettare a lungo. Ci fu un’esclamazione improvvisa della folla, e una bolla argentea si dilatò nel cielo con velocità incredibile. Una raffica di vento investì Stormgren nell’istante in cui il piccolo veicolo spaziale si fermava a una cinquantina di metri, restando sospeso a pochi centimetri dal suolo, quasi timoroso di un contatto con la Terra. Mentre camminava lentamente verso la folla, Stormgren vide il familiare raggrinzarsi dello scafo metallico apparentemente senza connessure, e un attimo dopo l’apertura che aveva tanto stupito i più celebri scienziati del pianeta si rivelò. Lui entrò nell’unica sala scarsamente illuminata della piccola astronave. L’apertura si richiuse senza lasciare traccia, escludendo ogni suono e ogni vista dall’esterno. Si riaprì cinque minuti più tardi. Non aveva avuto nessuna sensazione di movimento, ma Stormgren sapeva di essere a cinquanta chilometri sopra la Terra, profondamente incuneato nel cuore della nave cosmica di Karellen. Era tra i Superni: intorno a lui essi erano intenti alle loro misteriose faccende. Stormgren era spesso andato più vicino a loro di qualsiasi altro uomo, eppure come ogni altro terrestre ignorava tutto del loro aspetto fisico. La saletta delle riunioni in fondo al breve passaggio era arredata unicamente con una sedia e un tavolino sotto il teleschermo e, secondo le intenzioni, non rivelava assolutamente nulla delle creature che l’avevano costruita. Lo schermo era vuoto e spento, come l’aveva sempre visto Stormgren. Talvolta in sogno, lui immaginava di vederlo accendersi improvvisamente, rivelando il segreto che assillava il mondo. Ma il sogno non si era mai avverato: dietro quel rettangolo di tenebra si annidava il mi-stero più impenetrabile. Ma vi si nascondeva anche potenza e saggezza, e soprattutto una infinita tolleranza, una specie di divertito sentimento di affetto per le piccole creature che si affannavano sul pianeta Terra. Dalla grata nascosta venne la voce calma, mai assillata dalla fretta, che Stormgren conosceva tanto bene e che il mondo aveva sentito una volta sola nella sua storia. La profondità e la risonanza di quella voce erano la sola indicazione sulla natura fisica di Karellen, e dava una chiara impressione delle sue dimensioni: Karellen doveva essere altissimo, più grande di un essere umano. Alcuni scienziati, però, dopo avere analizzato la registrazione del suo discorso, avevano prospettato l’ipotesi che la voce fosse quella di una macchina, ma Stormgren non poteva crederci. «Sì, Rikki, ho seguito il vostro breve colloquio. Che cosa ne pensate del signor Wainwright?» «È un uomo onesto, anche se molti suoi seguaci non lo sono. Che cosa dobbiamo fare? La Lega in sé non è pericolosa, ma alcuni dei suoi estremisti sono apertamente per la violenza. Mi sono chiesto se non fosse il caso di chiedere una guardia del corpo, ma spero che non sia necessario.» Con l’atteggiamento irritante che aveva spesso, Karellen non prese in considerazione l’argomento. «Da un mese ormai si conoscono i particolari sull’andamento della Federazione Mondiale. C’è stato un sensibile aumento sulla vecchia percentuale del sette per cento dei miei oppositori, o sul dodici per cento degli agnostici?» «No, ma non è questo il punto più importante. Mi preoccupa, piuttosto, il sentimento generale, diffuso anche tra i vostri sostenitori, che è tempo di svelare il mistero di cui vi circondate.» Il sospiro di Karellen fu tecnicamente perfetto, ma mancava di convinzione. «Ed è anche il vostro sentimento, non è vero?» La domanda era retorica, e Stormgren non si preoccupò di rispondere. «Mi domando se vi rendete conto» continuò seriamente «di come questa situazione renda difficile il mio lavoro…» «Credetemi, non facilita nemmeno il mio» rispose Karellen, con una certa vivacità. «Vorrei che la gente la smettesse di considerarmi un dittatore e si ricordasse che sono soltanto un funzionario incaricato di seguire una politica coloniale nella cui elaborazione non ha messo mano.» Questa definizione di sé, pensò Stormgren, era alquanto impegnativa; ma fino a che punto corrispondeva alla verità? «Non potreste almeno darci una spiegazione per la vostra invisibilità? Noi non riusciamo a trovarne, e la cosa ci disturba e fa nascere chiacchiere interminabili.» Karellen fece udire la sua risata profonda, troppo risonante per essere del tutto umana. «Che cosa si crede di me, adesso? La teoria del robot è ancora valida? Preferirei, comunque essere una massa di valvole elettroniche che qualcosa di simile a un millepiedi… ah, sì, ho visto ieri quella vignetta sul «Chicago Tribune»! Ho una mezza idea di chiederne l’originale!» Stormgren strinse le labbra. C’erano momenti in cui Karellen sembrava prendere i suoi doveri troppo alla leggera. «Si tratta di una cosa molto seria» disse il Segretario Generale in tono di rimprovero. «Mio caro Rikki» rispose Karellen «ma è soltanto non prendendo la razza umana sul serio, che riesco a conservare quel che ancora mi resta della mia forza mentale, assai considerevole un tempo.» Stormgren non poté fare a meno di sorridere. «Non mi avete dato un grande aiuto, non vi pare? Dovrò tornare laggiù a convincere i miei simili che, sebbene non vi facciate vedere, non avete niente da nascondere. Non sarà facile, ve lo assicuro. La curiosità è una delle caratteristiche umane dominanti. Non potete sfidarla in eterno.» «Fra tutti i problemi che abbiamo dovuto affrontare quando siamo venuti sulla Terra, questo è stato il più arduo» ammise Karellen. «Vi siete fidati della nostra saggezza per altre cose, sicuramente potete fidarvi anche per questo.» «Io ho fiducia in voi» disse Stormgren «ma Wainwright no, e meno ancora i suoi seguaci. Vi sentite di condannarli se interpretano in senso negativo il vostro rifiuto a mostrarvi?» Seguì un lungo silenzio. Poi Stormgren udì un lieve rumore (uno scricchiolio forse?) quale avrebbe potuto fare il Supercontrollore nel muoversi. «Sapete perché Wainwright e quelli che la pensano come lui hanno paura di me?» disse Karellen. La sua voce era triste, ora, come il suono in sordina di un grande organo che moduli le note dall’alto di una navata di cattedrale. «Troverete uomini come lui in tutte le religioni del mondo. Sanno che noi rappresentiamo la ragione e la scienza, e per quanta fiducia possano avere nella loro fede, temono che finiremmo per rovesciare i loro dei. Non necessariamente con un atto deliberato, ma in modo più sottile. La scienza può distruggere la religione ignorandone l’esistenza, o dichiaran-done false le basi. Nessuno mai ha potuto dimostrare, a quanto ne so, la non esistenza di Zeus o di Thor… ma queste divinità hanno pochi adoratori oggi. I vari Wainwright temono inoltre che noi si conosca la verità sulle origini delle loro fedi. Da quanto tempo, si domandano, noi stiamo osservando l’umanità? Abbiamo visto quando Maometto dette inizio all’Egira, quando Mosè impartì le leggi agli Ebrei? Sappiamo tutto ciò che c’è di falso nei miti ai quali essi credono?» «E lo sapete?» domandò Stormgren, più che altro a se stesso. «Questa, Rikki, è la paura che li tormenta, anche se non lo ammetteranno mai apertamente. Credetemi, non ci dà alcun piacere distruggere le fedi degli uomini, ma non tutte le religioni del mondo possono essere ognuna quella vera, e loro lo sanno. Prima o poi, l’uomo dovrà sapere la verità, ma quel momento non è ancora venuto. In quanto al nostro segreto che, come voi giustamente dite, aggrava i nostri problemi, rivelarvelo non dipende da noi. La necessità di mantenere il mistero dispiace a me quanto a voi; ma esistono motivi molto validi. Tuttavia, tenterò di ottenere dai miei… superiori… una dichiarazione che possa soddisfarvi e forse placare la Lega della Libertà. E ora, se non vi dispiace, vogliamo ritornare al nostro programma di lavoro?» «Allora?» chiese Van Ryberg ansiosamente. «Avete avuto fortuna?» «Non lo so» rispose Stormgren, gettando sulla scrivania le cartelle delle varie pratiche e lasciandosi cadere nella sua poltrona. «Karellen consulterà i suoi superiori, quali o qualunque cosa siano. Ma non ha fatto promesse.» «Sentite» disse Pieter a un tratto «ho pensato una cosa. Che motivo abbiamo di credere che ci sia qualcuno dietro Karellen? E se tutti i Superni, come li abbiamo chiamati, fossero qui sulla Terra, a bordo delle loro astronavi? Può darsi che non abbiano un loro mondo dove andare e non ce lo vogliano dire.» «La teoria è ingegnosa» sorrise Stormgren «ma mi sembra che faccia a pugni col poco che so, o che credo di sapere, su Karellen.» «E sarebbe, questo poco?» «Vedete, spesso Karellen parla della sua posizione qui come di un incarico temporaneo, che gli impedisce di dedicarsi al suo vero lavoro che, secondo me, è una forma di matematica superiore. Una volta gli ho citato la massima di Acton sul potere che corrompe in modo assoluto. Volevo vedere la sua reazione; se ne uscì in una delle sue risate cavernose, e disse: «Non c’è pericolo che possa accadere una cosa del genere a me. Innanzitutto, prima avrò finito il mio lavoro con la Terra, più presto potrò tornare al mio mondo, a parecchi anni luce da qui. E poi, non ho poteri assoluti, in nessun modo. Io sono semplicemente… un supercontrollore». Naturalmente, può avermi detto così per sviarmi. Non potrò mai saperlo con certezza.» «È immortale, vero?» «Sì, almeno in rapporto ai limiti della vita umana. Ma c’è qualcosa nel futuro che lui sembra temere, e che io non riesco a immaginare che cosa sia. Ecco. È tutto quello che so di lui.» «Non è certo conclusivo! La mia teoria è che la sua piccola flotta si è smarrita nello spazio e ora sta cercando una nuova patria. E lui non vuole farci sapere in quanti sono. Forse tutte le altre astronavi sono automatiche e non hanno equipaggio a bordo. In questo caso, sarebbero soltanto una imponente facciata.» «Leggete troppi romanzi di fantascienza» disse Stormgren. Van Ryberg sorrise, un po’ forzatamente. «La famosa «Invasione dallo spazio» non è avvenuta come ci si aspettava, eh? Certo però, la mia teoria spiegherebbe il perché Karellen non si è mai mostrato: non vuole che si sappia che i Superni in realtà non sono più tali.» Stormgren scosse la testa, divertito. «La vostra spiegazione, come al solito, è troppo ingegnosa per essere vera. Sebbene noi possiamo solo dedurne l’esistenza, deve esservi una grande civiltà dietro il Supercontrollore, una civiltà, tra l’altro, che conosce l’uomo da moltissimo tempo. Lo stesso Karellen deve averci studiato per secoli. Pensate solo alla sua padronanza dell’inglese! Ha insegnato a me a parlarlo idiomaticamente!» «Avete mai scoperto qualcosa che egli non sappia?» «Oh, sì, molto spesso. Ma si tratta di cose banali. La sua memoria è assolutamente perfetta, ma ci sono cose che non si è preso il disturbo di imparare. Per esempio, l’inglese è la sola lingua che Karellen sappia alla perfezione, sebbene in questi ultimi due anni abbia imparato abbastanza bene il finnico per potermi prendere in giro. E il finnico non è lingua che s’impari in quattro e quattr’otto. È capace di citarmi lunghi squarci del «Kalevala», mentre io devo ammettere, con vergogna, di conoscerne appena qualche verso. Sa poi la biografia di tutti gli statisti viventi, e talvolta riconosco le fonti a cui ha attinto. La sua conoscenza della storia e delle scienze è illimitata: anche voi non ignorate quanto abbiamo già imparato da lui. Prese a una a una, le sue doti intellettuali non mi sembrano molto superiori alle capacità dell’intelletto umano. Nessun uomo, però, saprebbe fare tutto quello che lui fa.» «È più o meno quanto avevo pensato anch’io» convenne Van Ryberg. «Potremmo discutere su Karellen in eterno, e alla fine arriveremmo sempre alla stessa domanda: perché non si fa vedere in faccia? Fino a quando non si mostrerà, io continuerò a formulare teorie, e la Lega della Libertà continuerà a lanciare i suoi fulmini.» Alzò lo sguardo al soffitto, con espressione ribelle. «Spero proprio, signor Supercontrollore, che in una notte buia un cronista salga con un razzo fino alla tua grande astronave e vi penetri con una macchina fotografica. Che colpo sensazionale, sarebbe!» Se Karellen aveva sentito, non dette però alcun segno. Ma non lo faceva mai. Nel primo anno della loro comparsa, l’arrivo dei Superni aveva influito meno sull’andamento della vita umana di quanto ci si sarebbe aspettato. La loro ombra era ovunque, ma era un’ombra discreta. Da quasi tutte le grandi città della Terra si vedeva una delle immense astronavi d’argento scintillare allo zenith, ma dopo un po’ la loro presenza divenne qualcosa di scontato, come il sole di giorno, o la luna di notte, o le nuvole. La maggior parte degli esseri umani si rendeva conto solo in modo vago che il tenore di vita sempre più elevato era opera dei Superni. Ma quando si soffermavano a pensarci, il che non accadeva spesso, si accorgevano che quelle astronavi silenti avevano portato la pace a tutto il mondo per la prima volta nella storia, e allora provavano gratitudine. Ma erano benefici poco spettacolari, che venivano accettati e subito dimenticati. I Superni rimanevano distanti e non si mostravano agli uomini. Karellen imponeva rispetto e ammirazione, ma non avrebbe suscitato un sentimento più profondo, finché avesse mantenuto il suo atteggiamento attuale. Era facile non sentire rancore contro quelle specie di divinità che parlavano all’uomo solo sui circuiti delle radio-telescriventi nella Sede delle Nazioni Unite. Il tenore dei colloqui tra Karellen e Stormgren non veniva mai divulgato, e più d’una volta lo stesso Stormgren s’era chiesto perché il Supercontrollore considerasse necessari quegli incontri. Forse sentiva la necessità di contatti diretti con almeno un essere umano; o forse aveva capito che Stormgren aveva bisogno di quella forma di appoggio personale. Se era questa la spiegazione, il Segretario Generale gliene era riconoscente: non gli importava nemmeno che la Lega della Libertà lo definisse con disprezzo «il tirapiedi di Karellen». I Superni non avevano mai svolto trattative o avuto rapporti con singoli Stati o governi: avevano preso l’Organizzazione delle Nazioni Unite come l’avevano trovata, le avevano dato istruzioni per l’impianto delle stazioni radio necessarie e avevano impartito i loro ordini tramite il Segretario Generale. In innumerevoli occasioni e con interventi lunghissimi, il delegato sovietico aveva fatto notare che questo procedimento era anticostituzionale, ma Karellen non se ne era mai preoccupato. Era sbalorditivo che tanti abusi, follie, perversità fossero finiti grazie a quei messaggi che scendevano dal cielo. Con l’arrivo dei Superni, le nazioni avevano capito di non dover più temere l’una dall’altra e avevano indovinato, ancor prima che ne venisse fatto l’esperimento, che le loro armi sarebbero state impotenti contro una civiltà che sapeva gettare ponti fra le stelle. Così, di colpo, il più grande ostacolo alla felicità del genere umano era stato rimosso. I Superni sembravano indifferenti alle diverse forme di governo, sempre che non fossero né dittatoriali né corrotte. La Terra continuava ad avere democrazie e monarchie, comunismo e capitalismo, fonte, questa, di grande sorpresa per molte anime semplici convinte che il loro fosse il solo sistema di vita possibile. Altri credevano che Karellen attendesse soltanto il momento giusto per dar vita a un sistema che avrebbe spazzato via ogni altra forma di convivenza sociale, e che per questo motivo non si era preso la briga di riforme politiche secondarie. Ma come ogni altra supposizione riguardo ai Superni anche questa era solo una congettura senza basi. Nessuno conosceva il loro vero scopo e nessuno sapeva verso quale futuro stessero spingendo il gregge del genere umano. 2 Era un po’ di tempo che Stormgren dormiva male, strano, considerato che tra poco sarebbero finite per sempre le preoccupazioni inerenti alla sua carica. Serviva il genere umano da quarant’anni e i Superni da cinque, ed erano ben pochi gli uomini che, volgendosi come lui a guardare indietro, vedessero appagate tante ambizioni. Forse era proprio questo il guaio: negli anni, pochi o tanti, che gli restavano da vivere, non avrebbe avuto altri scopi da raggiungere che gli servissero da sprone. Da quando Martha era morta e i figli si erano formati la propria famiglia, i suoi legami col mondo si erano sempre più allentati. Forse perché aveva cominciato lui stesso a identificarsi con i Superni, staccandosi in tal modo gradatamente dall’umanità. Quella era un’altra notte agitata in cui il suo cervello continuava a girare come una ruota impazzita. Visto che non riusciva a prendere sonno, si alzò, infilò la vestaglia e uscì sul terrazzo del modesto appartamento. Tra i suoi diretti subalterni non ce n’era uno che non abitasse in un appartamento più signorile, ma per Stormgren quello andava benissimo. Il Segretario Generale d’altronde aveva raggiunto una posizione per cui né le proprietà private né le cerimonie ufficiali potevano aggiungere qualcosa alla sua statura. La notte era calda, quasi afosa, ma il cielo era limpido e la luna brillava bassa a sud-ovest. A dieci chilometri, le luci di New York segnavano l’orizzonte simili a un’alba pietrificatasi nell’attimo della sua comparsa. Stormgren alzò lo sguardo sopra la metropoli addormentata, scalando ancora una volta le altitudini che lui solo, di tutti gli esseri umani, aveva affrontato. Per lontana che fosse, riusciva a distinguere lo scafo della nave di Karellen scintillante ai raggi della luna. Si chiese che cosa facesse in quel momento il Supercontrollore, dato che non credeva che i Superni dormissero. Altissima, una meteora trafisse la volta del cielo come una lancia infuocata. La scia luminosa indugiò per qualche istante sempre più fioca sul manto nero della notte e infine si spense lentamente, lasciando solo le stelle. L’analogia nacque di colpo nella sua mente: fra cento anni, Karellen avrebbe ancora guidato il genere umano verso la meta che lui solo conosceva; ma fra quattro mesi un altro sarebbe stato Segretario Generale. Cosa che, di per sé, Stormgren era lungi dal rimpiangere, ma voleva dire che gli rimaneva poco tempo se sperava di scoprire che cosa si nascondesse dietro quello schermo spento. Solo da qualche giorno aveva osato ammettere che il mistero dei Superni lo ossessionava. Fino a poco tempo prima, la sua fede in Karellen lo aveva salvato da ogni dubbio; ma ora le pretese della Lega della Libertà cominciavano a fare effetto anche su di lui. Era vero che la propaganda sull’asservimento dell’uomo era solo propaganda. Pochi ci credevano veramente o desideravano realmente tornare ai vecchi tempi. Gli uomini si erano abituati all’invisibile presenza di Karellen, ma cominciavano a diventare impazienti di sapere chi li guidava. E in realtà non si poteva dar loro torto. Sebbene fosse di gran lunga la più importante, la Lega della Libertà era soltanto una delle organizzazioni che si opponevano a Karellen e di conse-guenza a chi collaborava con i Superni. Ideologia e metodo di questi gruppi erano dei più svariati: alcuni basavano la loro opposizione su principi religiosi, mentre altri esprimevano soltanto un pensoso senso di inferiorità. Provavano, e a ragione, molto di quello che un indiano evoluto del secolo decimonono doveva aver sentito nei confronti del governatore britannico. Gli invasori avevano portato pace e prosperità alla Terra, ma chi poteva dire quale ne sarebbe stato il prezzo? La storia passata non era tranquillizzante al riguardo: anche i più pacifici contatti fra razze dal livello culturale diversissimo si erano spesso conclusi con l’annientamento della civiltà più arretrata. Le nazioni, esattamente come gli individui, potevano perdere il coraggio quando venivano chiamate a una sfida superiore alle loro forze. E la civiltà dei Superni, anche velata dal mistero, rappresentava la più grande sfida che fosse mai stata lanciata al genere umano. Si udì il ticchettio della macchina che nella camera accanto batteva il notiziario trasmesso di ora in ora dalla «Central News». Stormgren entrò nella camera e si mise a sfogliare distrattamente gli ultimi fogli battuti. Sull’altro emisfero, la Lega della Libertà aveva ispirato un titolo non molto peregrino: L’UMANITÀ È FORSE DOMINATA DA MOSTRI? Dopo il titolo, la notizia: «In un discorso pronunciato oggi a un comizio, a Madras, il dottor C.V. Krishnan, Presidente della Sezione Orientale della Lega della Libertà, ha detto: ‘La ragione della condotta dei Superni è molto semplice. La loro forma fisica è così diversa dalla nostra e repellente che essi non osano mostrarsi all’umanità. Sfido il Supercontrollore a smentire questa mia affermazione’.» Stormgren gettò via il foglio con disgusto. Ammesso che l’accusa rispondesse a verità che importanza poteva avere? L’idea non era affatto nuova, ma non l’aveva mai preoccupato. Non credeva all’esistenza di una forma biologica che, per quanto insolita, lui non potesse accettare e forse trovare perfino bella. Era la mente, non il corpo, che in ultima analisi aveva importanza. Se almeno avesse potuto convincere Karellen di questo, forse i Superni avrebbero cambiato linea di condotta. Comunque fosse, non potevano essere creature ripugnanti come i disegni di fantasia che avevano riempito i giornali subito dopo la loro comparsa nel cielo della Terra. Eppure Stormgren sapeva che non soltanto per rispetto e generosità verso il suo successore lui era tanto ansioso di vedere la fine di quella storia. Era abbastanza onesto da ammettere che il motivo principale era semplice, umanissima curiosità. Se era abituato alla personalità di Karellen, ora non avrebbe più avuto pace finché non avesse scoperto com’era fatto fisicamente. Il mattino seguente, Pieter van Ryberg fu sorpreso e un po’ sconcertato di non vedere arrivare Stormgren alla solita ora. Il Segretario Generale andava spesso in un posto o nell’altro prima di raggiungere l’ufficio, però, quando lo faceva, lo lasciava sempre detto. Quel mattino, per peggiorare le cose, arrivarono parecchi messaggi urgenti per Stormgren. Van Ryberg telefonò in sei o sette dipartimenti cercando di rintracciarlo, poi, seccato, si arrese. A mezzogiorno, cominciò veramente a preoccuparsi e mandò una macchina a casa di Stormgren. Dieci minuti più tardi, l’urlo della sirena di un’auto della polizia che percorreva velocemente la Roosevelt Drive lo fece sussultare. Le agenzie di stampa erano evidentemente in buoni rapporti con i poliziotti di quell’autopattuglia perché, mentre ancora Van Ryberg stava guardando l’auto dalla finestra, la radio già annunciava al mondo la notizia che lui non era più semplicemente il Vice Segretario, ma il facente funzione di Segretario Generale delle Nazioni Unite. Se Van Ryberg avesse avuto meno guai sulle spalle, avrebbe trovato interessante studiare le reazioni della stampa alla scomparsa di Stormgren. In quegli ultimi mesi, i giornali del mondo s’erano nettamente divisi in due fazioni. La stampa occidentale, in complesso, approvava il progetto di Karellen: rendere gli uomini cittadini del mondo. I Paesi orientali, d’altra parte, stavano vivendo violente crisi di orgoglio nazionale e pensavano di essere stati derubati dei loro vantaggi. Le critiche contro i Superni erano generali e violente, in questi Paesi. Dopo un periodo iniziale di estrema prudenza, la stampa si era accorta di potersi scagliare contro Karellen come e quanto voleva perché tanto non sarebbe successo niente. Ora stava superando se stessa. In massima parte, gli attacchi, anche se verbosissimi, non erano la voce della massa popolare. Lungo quelle frontiere che stavano per scomparire per sempre, le guardie confinarie erano state raddoppiate, ma ogni uomo di sentinella guardava gli altri con un’amicizia ancora inespressa. Politici e militari potevano andare su tutte le furie, ma i milioni di uomini che aspettavano in silenzio avevano la sensazione precisa che finalmente un lungo e cruento capitolo della storia umana stava per concludersi. E ora Stromgren era scomparso. E nessuno poteva dire dove. Il tumulto si placò di colpo, appena il mondo si rese conto di aver perduto il solo uomo mediante il quale i Superni, per chi sa quali loro strani motivi, parlavano alla Terra. Stampa e radio parvero colti da paralisi, ma nel silenzio si poteva sentire alta la voce della Lega della Libertà ansiosa di proclamare la sua innocenza. Tutto era buio quando Stormgren si svegliò. Per un istante, intorpidito dal sonno, non ci fece caso. Poi, tornato perfettamente lucido, si levò a sedere di scatto e cercò l’interruttore accanto al letto. Nel buio, la sua mano sfiorò una parete di pietra, fredda al tatto. Stormgren si sentì gelare corpo e cervello paralizzati dall’inatteso. Quindi, non credendo ai suoi sensi, si mise in ginocchio sul letto e cominciò a esplorare con la punta delle dita la parete così penosamente sconosciuta. Era in quella posizione da qualche istante, quando udì uno scatto e tutta una sensazione di tenebra scivolò di lato. Stormgren vide la sagoma d’un uomo stagliarsi su uno sfondo vagamente luminoso. Poi l’apertura si richiuse e tornò il buio. Tutto era avvenuto con tale rapidità che lui non aveva avuto il tempo di vedere niente della camera in cui si trovava. Un istante più tardi, fu abbagliato dalla luce di una potente torcia elettrica. Il raggio indugiò sulla sua faccia per qualche secondo, quindi scese a illuminare il letto: un materasso sorretto da nude tavole, come poté vedere adesso. Dalle tenebre uscì una voce cortese, che disse in inglese perfetto, ma con un accento che Stormgren non poté identificare subito: «Bene, signor Segretario… lieto di vedervi sveglio. Mi auguro che vi sentiate del tutto a posto.» Qualcosa nell’ultima frase attirò l’attenzione di Stormgren e gli fece morire sulle labbra le domande che, furibondo, stava per fare. Guardò nel buio verso la voce, e disse, calmo: «Quanto tempo sono rimasto fuori conoscenza?» L’altro rise. «Alcuni giorni. Ci avevano garantito che non ci sarebbero stati postumi. Sono lieto di constatare che è vero.» Un po’ per guadagnare tempo, un po’ per saggiare le proprie reazioni, Stormgren mise le gambe giù dal letto. Indossava ancora il pigiama, stazzonato da far pietà e diventato incredibilmente sporco. Appena si mosse, ebbe un capogiro, non tale da preoccuparlo ma sufficiente a rivelargli che l’avevano drogato. Si voltò verso la luce. «Dove sono?» chiese seccamente. «C’entra per caso Wainwright in que-sta storia?» «Andiamo, non vi agitate» rispose la figura in ombra. «Non stiamo a parlare di questo, adesso. Immagino che abbiate fame. Vestitevi e venite a mangiare qualcosa.» Il cono di luce si mosse per la camera, e per la prima volta Stormgren ebbe un’idea delle sue dimensioni. Non si poteva nemmeno definirla una camera, perché le pareti erano di roccia, levigata alla meglio. Doveva essere nel sottosuolo, forse a grande profondità e, se era rimasto svenuto per parecchi giorni, in chi sa quale regione del mondo. La luce della torcia illuminò gli indumenti disposti alla meglio sopra una cassa da imballaggio. «Mi auguro che vadano bene» disse la voce nell’ombra. «Quello della lavatura e stiratura è un grosso problema, qui, perciò abbiamo preso un paio dei vostri vestiti e una mezza dozzina di camicie.» «Molto gentile da parte vostra» disse Stormgren senza ironia. «Non sappiamo come scusarci per la mancanza di mobili e di luce elettrica. Questo posto offre molti vantaggi, ma purtroppo manca di comodità.» «Quali vantaggi?» volle sapere Stormgren, mentre s’infilava una camicia. Il contatto familiare della stoffa fu stranamente rassicurante. «Be’… vantaggi» disse la voce. «A proposito, giacché dovremo con ogni probabilità passare parecchio tempo assieme farete bene a chiamarmi Joe.» «Nonostante la vostra nazionalità… siete polacco, non è vero?» ribatté Stormgren «credo di saper pronunciare il vostro nome vero: non sarà certo più difficile di certi nomi finnici.» Ci fu una breve pausa, e la luce vacillò per un secondo. «Avrei dovuto aspettarmelo» disse Joe in tono rassegnato. «Dovete avere una gran pratica di queste cose.» «È un passatempo utile per un uomo nella mia posizione. A occhio e croce direi che siete stato allevato negli Stati Uniti, ma non avete lasciato la Polonia prima di…» «Credo che possa bastare» lo interruppe Joe in tono fermo. «Vedo che avete finito di vestirvi… perciò, se volete…» La porta si aprì mentre Stormgren vi si avvicinava, lievemente sollevato dalla sua piccola vittoria. Joe si scostò per lasciarlo passare, e Stormgren si chiese se il suo carceriere fosse armato. Ma lo era quasi sicuramente. Comunque, lì attorno dovevano esserci altri della banda. Il corridoio era scarsamente illuminato da lampade a olio sistemate a lunghi intervalli, e per la prima volta Stormgren poté vedere Joe bene in faccia. Era sulla cinquantina e doveva pesare almeno cento chili. Tutto in lui era sproporzionatamente massiccio, smisurato, dalla divisa mimetizzata che poteva provenire da una mezza dozzina di eserciti, all’anello enorme, col sigillo, all’anulare della sinistra. Un uomo di quelle proporzioni probabilmente non aveva bisogno di portare la rivoltella. Non doveva essere difficile identificarlo, pensò Stormgren, qualora fosse uscito da quel sotterraneo. Si sentì depresso, però, all’idea che anche Joe doveva esserne perfettamente consapevole. Le muraglie intorno, anche se qua e là ricoperte di intonaco, erano soprattutto roccia viva. Evidentemente si trovavano in qualche miniera abbandonata, un posto ideale come prigione. Fino a quel momento, Stormgren non si era molto preoccupato per la sua sorte. Aveva pensato che, qualunque cosa fosse accaduta, i Superni lo avrebbero trovato e salvato grazie alle loro immense risorse. Ma adesso non ne era più tanto sicuro. Era scomparso ormai da parecchi giorni e non era successo niente. Doveva esserci un limite anche al potere di Karellen, e se lui ora si trovava sepolto nel sottosuolo in una lontana parte del mondo, forse nemmeno la scienza dei Superni poteva rintracciarlo. Due altri uomini erano seduti a tavola, in un locale spoglio, scarsamente illuminato. Quando Stormgren entrò, Io guardarono con interesse e addirittura con rispetto. Uno di loro spinse un piatto di panini imbottiti verso il Segretario che accettò con avidità. Per quanto affamato, avrebbe preferito un pranzo meno frugale, ma era chiaro che nemmeno i suoi carcerieri avevano mangiato meglio. Mentre mangiava, osservò con rapide occhiate i tre uomini che gli sedevano intorno. Joe era di gran lunga il tipo più interessante, e non soltanto per la corporatura. Era chiaro che gli altri erano dei subalterni, individui insignificanti, la cui origine Stormgren avrebbe identificato appena si fossero messi a parlare. Comparve del vino versato in un bicchiere non esattamente pulito, e Stormgren lo bevve per buttar giù l’ultimo panino. Ora che aveva mangiato, sentiva di tenere in mano la situazione. Si rivolse al gigantesco polacco. «Bene» disse, in tono affabile «ora forse sarete disposto a dirmi che cosa significa tutto questo e che cosa sperate di trarne.» Joe tossicchiò. «Innanzi tutto, vorrei mettere in chiaro una cosa» disse. «Wainwright non c’entra per niente e sarà rimasto sorpreso come gli altri.» Stormgren si era quasi aspettato una risposta del genere, sebbene si chiedesse ora perché mai Joe confermasse i suoi sospetti. Già da tempo subodorava l’esistenza di un movimento estremista in seno, o ai margini, della Lega della Libertà. «Per pura curiosità» disse «come avete fatto a rapirmi?» Non si aspettava una risposta, perciò fu colto di sorpresa dalla prontezza e dalla disinvoltura con cui l’altro rispose. «È filato tutto liscio come in un film giallo» disse Joe allegramente. «Non sapevamo se Karellen vigilasse su di voi, quindi siamo stati costretti a prendere delle precauzioni alquanto complicate. Innanzi tutto, vi abbiamo fatto perdere i sensi con un gas immesso nell’impianto dell’aria condizionata: è stato facile. Poi, vi abbiamo portato sulla macchina, cosa facilissima anche questa. Non è stato uno qualunque dei nostri a fare il lavoro. Abbiamo assunto… dei professionisti, per così dire. Karellen potrà anche catturarli, riteniamo anzi che lo farà, ma non arriverà oltre. Lasciata la vostra casa, la macchina ha imboccato un lungo tunnel ed è uscita in perfetto orario all’altra estremità. A bordo c’era ancora un uomo svenuto che assomigliava straordinariamente al Segretario Generale. Parecchio tempo dopo, un grosso autotreno carico di casse metalliche è emerso dalla parte opposta e si è diretto verso un certo campo d’aviazione, dove le casse sono state caricate su un aereo da trasporto in base a una normale e legalissima esigenza commerciale. Sono certo che i proprietari di quelle casse inorridirebbero nel sapere a cosa ci sono servite. Intanto l’automobile, finita la prima parte del suo lavoro, proseguiva nell’azione diversiva filando verso la frontiera canadese. Forse, quelli di Karellen l’hanno catturata, a quest’ora. Non lo so, e non me ne importa. Come vedete, e spero che apprezzerete la mia franchezza, tutto il nostro piano si basava su una sola cosa: sappiamo che Karellen può vedere e sentire tutto quello che succede sulla superficie della Terra, ma a meno che non ricorra alla magia, anziché alla scienza, non può vedere sotto di essa. Così non saprà del trasferimento avvenuto nel tunnel se non quando sarà troppo tardi. Naturalmente è stato lo stesso un rischio, ma avevamo studiato altre due o tre cosette per andare sul sicuro. Non vi dico, però, di cosa si tratta, perché potrebbero ancora tornarci utili e sarebbe un peccato sprecarle così per niente.» Joe aveva raccontato tutta la storia con una tale soddisfazione che Stormgren frenò a stento un sorriso. Ma era preoccupato. Il piano era stato indubbiamente ingegnoso ed era possibilissimo che Karellen fosse caduto nella trappola. Stormgren dubitava perfino che i Superni lo sorvegliassero a scopo protettivo. E Joe non ne sapeva più di lui. Forse era per questo che aveva parlato con franchezza, per vedere le sue reazioni. Bene, gli conveniva mostrarsi fiducioso, qualunque fossero i suoi sentimenti. «Dovete essere matti» disse «se v’illudete di ingannare Karellen e i Superni così facilmente. Comunque, che cosa sperate di ottenere?» Joe gli offrì una sigaretta, che Stormgren rifiutò, quindi ne accese una per sé e si sedette sull’angolo del tavolo. Si udì uno scricchiolio di cattivo augurio, e lui si affrettò ad alzarsi. «Il nostro scopo» cominciò «è evidente. Ci siamo accorti che le discussioni sono inutili e che bisognava ricorrere ad altre misure. Sono già esistiti movimenti clandestini prima di ora, e lo stesso Karellen, per grande che sia il suo potere, si accorgerà che siamo un osso duro. Noi ci battiamo per la nostra indipendenza. Non fraintendetemi. Non useremo la violenza, in un primo tempo, almeno, ma i Superni devono servirsi di agenti umani, e noi possiamo rendere il loro compito estremamente difficile.» «Cominciando da me, suppongo» pensò Stormgren. Si chiese quanto, di tutta la storia, gli avesse raccontato il polacco. Quella gente credeva davvero che i sistemi da gangster avrebbero fatto vacillare Karellen? D’altro canto, però, non si poteva negare che un ben organizzato movimento di resistenza poteva rendere la vita difficile. Joe aveva messo il dito sul solo punto debole del dominio dei Superni. Tutti i loro ordini erano trasmessi mediante agenti umani: se questi fossero stati indotti dal terrore a disobbedire, l’intero sistema sarebbe potuto crollare. Non era che una vaga possibilità, tuttavia, e Stormgren non dubitava che Karellen avrebbe trovato la soluzione. «E con me, che cosa contate di fare?» domandò Stormgren alla fine delle sue riflessioni. «Sono un ostaggio o cosa?» «Non preoccupatevi. Vigileremo su di voi e vi proteggeremo. Aspettiamo delle visite, nei prossimi giorni, e nell’attesa faremo del nostro meglio per intrattenervi.» Aggiunse alcune parole nella sua lingua, e uno dei suoi accoliti fece saltar fuori un mazzo di carte nuove fiammanti. «Ce le siamo procurate apposta per voi» riprese. «Ho letto su un giornale, giorni fa, che siete un eccellente giocatore di poker.» La sua voce si fece d’un tratto grave. «Spero che il vostro portafoglio sia ben rifornito» disse ansiosamente. «Non abbiamo pensato ad accertarcene. Capite bene che, data la situazione, non possiamo accettare assegni.» Sconcertato, Stormgren fissò con gli occhi sbarrati, senza parole, i suoi carcerieri. Poi, afferrato appieno l’umorismo della situazione, si sentì sol-levato di colpo da tutte le preoccupazioni e gli impegni della sua carica. Da quel momento tutto ricadeva sulle spalle di Van Ryberg, e qualunque cosa succedesse, lui non poteva farci niente… E quegli straordinari criminali erano ansiosi di giocare a poker con lui. Non c’era dubbio, pensò Van Ryberg di malumore, che Wainwright dicesse la verità. Forse aveva dei sospetti, ma non sapeva chi avesse rapito il Segretario Generale e non approvava il rapimento. Van Ryberg aveva una mezza convinzione che gli estremisti della Lega della Libertà avessero esercitato pressioni su Wainwright perché adottasse una politica più attiva e, alla fine, avessero preso in mano le redini dell’organizzazione. Il rapimento era stato organizzato alla perfezione, di questo non c’era dubbio: Stormgren poteva essere nascosto in qualunque angolo della Terra, e c’erano poche speranze di poterlo scovare. Eppure bisognava fare qualcosa al più presto, pensò Van Ryberg. Nonostante le battute di spirito, provava per Karellen una specie di timore riverenziale. L’idea di avvicinare il Supercontrollore direttamente lo sgomentava, ma non c’era alternativa. I servizi di comunicazione occupavano tutto l’ultimo piano del grosso palazzo. File e file di macchine e telescriventi, alcune silenziose, altre che ticchettavano freneticamente, si allungavano in distanza. Dalle macchine fluivano senza posa elenchi di cifre, risultati di censimenti, dati statistici, tutto il materiale indispensabile al sistema economico di un mondo. E in un punto dell’astronave di Karellen doveva esserci un duplicato di quella sala immensa. Con un brivido, Van Ryberg si domandò com’erano le figure che si muovevano tra quelle macchine per raccogliere i messaggi che la Terra mandava ai Superni. Van Ryberg entrò nel piccolo studio privato dove solo Stormgren aveva diritto a entrare. Ne aveva fatto forzare la serratura, e il capo dei servizi di comunicazione lo stava aspettando là dentro. «È una comune telescrivente, con la normale tastiera da macchina per scrivere» disse il funzionario. «C’è anche un trasmettitore di immagini, qualora voleste inviare disegni o diagrammi, ma avete detto che questo non vi serviva…» Van Ryberg approvò con un cenno distratto. «Non mi serve altro, grazie» disse. «Non credo che mi fermerò molto. Quando sarò uscito, fate richiudere e poi consegnatemi tutte le chiavi.» Attese che il funzionario fosse uscito, poi si sedette stancamente davanti alla macchina. Veniva usata molto di rado, dato che quasi tutte le transa-zioni fra Stormgren e Karellen erano sbrigate durante i loro incontri settimanali. Trattandosi di un mezzo per comunicazioni d’emergenza, Van Ryberg si aspettava una risposta entro brevissimo tempo. Dopo un attimo d’esitazione, cominciò a battere il messaggio con dita inesperte. La macchina brontolava sommessa, e le parole apparivano scintillanti per qualche secondo sullo schermo nero. Infine, Van Ryberg si appoggiò allo schienale della sedia e attese la risposta. Non era passato un minuto, che la macchina riprese a vibrare. Era proprio vero: il Supercontrollore non dormiva mai. Il messaggio fu breve e poco consolante: MANCHIAMO INFORMAZIONI. LASCIAMO RICERCHE INTERAMENTE VOSTRA DISCREZIONE. K. Con amarezza, e senza provare la minima soddisfazione, Van Ryberg si rese conto della gravità dei compiti che lo sovrastavano. Negli ultimi tre giorni, Stormgren aveva studiato attentamente i suoi rapitori. Joe era il solo di qualche rilievo: gli altri erano nullità, il ciarpame che sempre si raccoglie ai margini d’ogni movimento clandestino. Gli ideali della Lega della Libertà non significavano niente per loro, preoccupati di un’unica cosa: guadagnarsi da vivere col minimo di fatica. Joe era un individuo infinitamente più complesso, sebbene talvolta facesse pensare a un bambino di dimensioni eccezionali. Le loro interminabili partite di poker erano contraddistinte da violente discussioni politiche, e Stormgren non ci mise molto a capire che il massiccio polacco non aveva mai riflettuto seriamente sulla causa per cui si batteva. Emozione ed eccessivo spirito conservatore annebbiavano ogni suo giudizio. La lunga lotta per l’indipendenza sostenuta dal suo Paese lo aveva completamente condizionato, e lui viveva ancora in quegli anni ormai passati. Era un rudere pittoresco, uno di quegli uomini che non sanno adattarsi a un sistema ordinato di vita. Il giorno che i tipi come lui dovessero scomparire, ammesso che sia possibile, il mondo sarà forse un posto più tranquillo, ma sicuramente meno interessante. Per quanto riguardava Stormgren, pareva proprio che Karellen non fosse riuscito a localizzarlo. Il Segretario Generale aveva cercato di bluffare, ma i suoi guardiani non si erano lasciati convincere. Era pronto a scommettere che l’avevano tenuto lì per vedere se Karellen sarebbe intervenuto, che adesso, visto che non era successo niente, avrebbero attuato i loro piani. Alcuni giorni più tardi, Joe gli annunciò visite. Non fu una sorpresa per Stormgren: da un paio di giorni i tre carcerieri erano agitati, e lui ne aveva dedotto che i capì del movimento, visto che tutto procedeva per il meglio, avevano deciso di venire finalmente a prelevarlo. Erano già raccolti attorno alla tavola traballante, quando Joe con un cenno cortese lo invitò a entrare nella sala comune. Stormgren notò divertito che il suo custode ostentava un’enorme pistola, per la prima volta. I due accoliti erano scomparsi, e Joe sembrava intimidito. Stormgren capì subito che si trovava di fronte a uomini di ben maggiore levatura. Il gruppo di fronte a lui gli ricordò una fotografia vista una volta: Lenin e i suoi collaboratori ritratti nei primi giorni della rivoluzione russa. In quei sei uomini era evidente la stessa intelligenza, la stessa decisione ferrea, la stessa razionale freddezza dei capi russi. Joe e quelli come lui erano innocui: ma gli altri erano i veri cervelli che davano vita al movimento. Con un breve cenno di saluto, Stormgren si diresse verso la sola sedia libera, cercando di mostrarsi disinvolto e padrone di sé. Mentre si avvicinava, l’uomo anziano e robusto, seduto al lato più lontano della tavola, si protese in avanti e lo fissò con grigi occhi penetranti. Quegli occhi misero in tale disagio Stormgren che, contrariamente a ciò che aveva deciso di fare, parlò per primo. «Immagino che siate venuti per porre le vostre condizioni. Quale sarebbe il mio riscatto?» Osservò che in fondo alla stanza qualcuno stava stenografando le sue parole. Tutto aveva l’aria molto burocratica. Il capo rispose con spiccato accento gallese. «Potete anche metterla così, signor Segretario Generale. Ma noi vogliamo informazioni, non denaro.» Era così, dunque, pensò Stormgren. Era prigioniero di guerra, e quello era il suo interrogatorio. «Voi conoscete i nostri scopi» riprese l’altro, con la sua voce cantilenante. «Chiamateci un movimento di resistenza, se preferite. Siamo convinti che, prima o poi, la Terra dovrà battersi per la sua indipendenza, ma la lotta può essere condotta solo col sistema del sabotaggio e della disobbedienza civile. Vi abbiamo rapito, in parte per dimostrare a Karellen che facciamo sul serio e siamo ben organizzati, ma soprattutto perché voi siete un uomo ragionevole, signor Stormgren. Assicurateci la vostra collaborazione e sarete rimesso in libertà.» «Che cosa volete sapere esattamente?» domandò Stormgren, cauto. Quegli occhi straordinari sembravano frugargli fino in fondo al cervello. Erano occhi diversi da quanti ne avesse mai visti. La voce cantilenante ri-prese: «Sapete chi o che cosa sono realmente i Superni?» Stormgren sorrise. «Credetemi» disse «sono desideroso quanto voi di scoprirlo.» «Risponderete, dunque, alle nostre domande?» Si udì un lieve sospiro di sollievo da parte di Joe, e un mormorio di attesa si diffuse per la saletta. «Noi abbiamo un’idea generica» riprese l’altro «delle circostanze in cui incontrate Karellen. Ma sarà meglio che ci descriviate i vostri incontri senza omettere niente d’importante.» Cosa, questa, abbastanza innocua, pensò Stormgren. L’aveva già fatto molte volte e avrebbe avuto l’apparenza di una collaborazione. Erano cervelli acuti quelli che aveva davanti a sé e chissà che non scoprissero qualcosa di nuovo. I sei uomini avrebbero fatto tesoro di qualsiasi cosa lui avesse detto, e tra quello che Stormgren poteva dire non c’era assolutamente niente che potesse danneggiare in qualche modo Karellen. Si frugò in tasca e ne tolse una matita e una vecchia busta gualcita. Schizzando rapidamente un disegno, cominciò a parlare. «Saprete, naturalmente, che un piccolo ordigno volante, senza mezzi manifesti di propulsione, viene a prendermi a intervalli regolari per trasportarmi a bordo dell’astronave di Karellen. Esso penetra nel ventre della nave, e voi avete senza dubbio visto i film che sono stati ripresi sull’operazione. La porta si riapre — ammesso che si voglia proprio chiamarla porta — e io entro in una saletta dove ci sono un tavolo, una sedia e uno schermo televisivo. Più o meno è così.» Spinse il disegno verso il vecchio gallese, ma gli strani occhi non si volsero al foglio. Erano sempre fissi sulla faccia di Stormgren e, mentre questi li guardava, parve che qualcosa mutasse nelle loro profondità. La stanza si era fatta a un tratto silenziosa, e Stormgren sentì alle sue spalle il respiro rauco di Joe. Perplesso e seccato, il Segretario Generale si voltò a guardare e cominciò a capire. Confuso, appallottolò la busta, la lasciò cadere e ci mise sopra un piede. Adesso sapeva perché quegli occhi grigi lo avevano colpito così bizzarramente. L’uomo seduto davanti a lui era cieco. Van Ryberg non fece altri tentativi di mettersi in contatto con Karellen. La maggior parte del lavoro del suo dipartimento, il raggruppamento di dati statistici, lo spoglio della stampa mondiale e altre cose del genere, anda-va avanti automaticamente. A Parigi i legislatori stavano ancora discutendo sulla proposta Costituzione Mondiale, ma per il momento la cosa non lo riguardava. Mancavano due settimane al giorno fissato per sottoporre a Karellen la bozza della nuova Costituzione, e se non fosse stata pronta per il momento stabilito certamente Karellen avrebbe agito nel modo che riteneva opportuno. E ancora nessuna notizia di Stormgren. Van Ryberg stava dettando la corrispondenza, quando suonò il telefono collegato con la linea di emergenza. Sollevò il ricevitore e ascoltò con crescente sbalordimento, poi lo rimise giù di colpo e corse alla finestra aperta. Da lontano venivano grida di stupore e nella strada il traffico si stava bloccando. Era vero: l’astronave di Karellen, immutato simbolo dei Superni per tutti quegli anni, non era più nel cielo. Van Ryberg scrutò in alto fin dove gli era possibile spingere lo sguardo e non la vide. Poi, di colpo, parve che facesse notte. L’immensa astronave calò da nord rasente ai grattacieli di New York oscurando tutto con la sua sagoma immensa, scura, vista così senza il riflesso del sole, come una nube temporalesca. Involontariamente Van Ryberg si ritrasse per sfuggire alla gigantesca ombra in corsa. Sapeva che le astronavi dei Superni erano di dimensioni gigantesche, incredibili, ma un conto era vederle alte nello spazio e un altro guardarle passare appena sopra la città, paurose come nubi cavalcate da demoni. Nel buio dell’eclissi parziale, guardò l’astronave e la sua ombra allontanarsi e svanire a sud. Non sentì alcun rumore, nemmeno il sibilo dell’aria, e capì che, per quanto fosse sembrata tanto vicina, la nave spaziale era passata almeno a mille metri di quota. Poi il palazzo vibrò colpito dallo spostamento d’aria, e si sentì un rumore di vetri da una stanza la cui finestra si era spalancata sotto l’onda d’urto. Nell’ufficio tutti i telefoni si misero a suonare, ma Van Ryberg non si mosse. Rimase lì, appoggiato allo stipite della finestra, lo sguardo fisso a sud, paralizzato da quella visione di potenza illimitata. A Stormgren pareva di avere il cervello su due piani diversi contemporaneamente. Da una parte, cercava di sfidare l’uomo che lo aveva catturato, dall’altra sperava che esso potesse aiutarlo a scoprire il segreto di Karellen. Gioco pericoloso, ma che con la sua notevole sorpresa lo divertiva. Il cieco gallese aveva condotto quasi tutto l’interrogatorio. Era affascinante vedere quell’agilissima mente tentare un varco dopo l’altro, valu-tando e respingendo tutte le storie che Stormgren stesso aveva abbandonato già da molto tempo. Alla fine si abbandonò contro la spalliera della sedia con un sospiro. «Non si conclude niente» disse, in tono rassegnato. «Abbiamo bisogno di altri fatti, e questo significa azione, non discussioni.» Gli occhi ciechi parvero fissare pensosi Stormgren, e per qualche istante l’uomo batté nervosamente le dita sul tavolo: il primo segno d’incertezza che Stormgren notava in lui. Infine riprese. «Mi stupisce non poco, signor Segretario, che non abbiate fatto nessun sforzo per saperne di più sui Superni.» «Che cosa proporreste, voi?» domandò Stormgren freddamente, cercando di nascondere il suo interesse. «Come vi ho detto, non c’è che una via d’uscita dal locale in cui si svolgono i miei colloqui con Karellen: quella che riporta direttamente sulla Terra.» «Si potrebbero escogitare strumenti capaci di rivelarci qualche cosa» congetturò l’altro. «Non sono uno scienziato, ma si può vedere che cosa si potrebbe fare in merito. Se vi rendiamo la libertà, sareste disposto a collaborare a un piano del genere?» «Una volta per tutte» disse Stormgren «lasciate che chiarisca bene la mia posizione. Karellen si adopera per la creazione di un mondo unito, e io non farò niente per aiutare i suoi nemici. Non so quali siano i suoi piani definitivi, ma credo fermamente che siano buoni.» «Quali prove ne avete?» «Tutte le sue azioni, fin dal primo istante in cui le astronavi sono apparse nel cielo del nostro pianeta. Vi sfido a citarmi una sola azione di Karellen che in ultima analisi non si sia rivelata benefica.» Stormgren fece una pausa, riandando col pensiero agli ultimi anni. Poi sorrise. «Come prova della… come chiamarla?… benevolenza dei Superni, basterebbe ricordare l’ordine in merito alle crudeltà contro gli animali emanato entro un mese dal loro arrivo. Qualsiasi dubbio avessi avuto su Karellen, quell’ordine lo fece svanire, anche se mi causò più noie di qualunque altra sua azione!» Non era una esagerazione, pensò Stormgren. Quell’incidente straordinario era stato la prima rivelazione che i Superni non tolleravano la crudeltà. Dovendoli giudicare dalle loro azioni, bisognava dire che questa intolleranza e la passione per la giustizia e per l’ordine erano le loro prerogative dominanti. Fu la sola volta che Karellen si fosse mostrato furioso. «Potete uccidervi l’un l’altro, se volete» aveva detto il messaggio «ciò riguarda voi e le vostre leggi. Ma se uccidete gli animali che dividono con voi il vostro pianeta, a meno che non sia per procurarvi cibo o per difesa personale, dovrete risponderne direttamente a me». Nessuno aveva idea esattamente dei limiti entro cui l’ordinanza era valida, o che cosa avrebbe fatto Karellen per farla osservare. Ma non dovettero aspettare molto per saperlo. La Plaza de Toros era gremita quando i toreri coi loro aiutanti avevano fatto l’ingresso nell’arena per il saluto pubblico. Tutto sembrava normale, il sole sfolgorava sui costumi tradizionali, la folla acclamava i suoi favoriti come aveva già fatto centinaia di volte. Pure, qua e là, delle facce si alzavano ansiose al cielo, verso la solitaria e superba sagoma argentea sospesa a cinquanta chilometri d’altezza su Madrid. Poi i picadores presero posto, e il toro uscì sbuffando dal recinto. I cavalli, le froge dilatate dal terrore, si erano messi a fare evoluzioni nel sole, mentre i cavalieri li spronavano incontro al nemico. La prima lancia saettò e colpì. In quell’istante si udì un urlo quale mai era echeggiato sulla Terra. Era l’urlo di dolore di diecimila persone tormentate dalla stessa ferita, diecimila esseri umani che, quando si furono ripresi, si ritrovarono del tutto illesi. Ma fu la fine della corrida, anzi, fu la fine di tutte le corride, perché la notizia si sparse rapidamente. Vale la pena di ricordare che gli spettatori erano rimasti così scossi che soltanto uno su dieci chiese la restituzione del denaro e che il giornale inglese «Daily Mirror» peggiorò la situazione proponendo che gli spagnoli adottassero il cricket come nuovo sport nazionale. «Può darsi che abbiate ragione» rispose il vecchio gallese. «È probabile che i motivi dei Superni siano buoni… secondo i loro punti di vista che qualche volta possono coincidere con i nostri. Ma i Superni sono degli intrusi, noi non abbiamo mai chiesto loro di venire a sconvolgere il nostro mondo, distruggendo ideali… sì, ideali, e nazioni… per i quali generazioni di uomini avevano combattuto con lo scopo di difendere e di proteggere.» «Io provengo da una piccola nazione che ha dovuto combattere per la sua libertà» ribatté Stormgren. «Eppure sono per Karellen. Lo si potrà ostacolare, potrete perfino ritardare il conseguimento dei suoi scopi, ma alla fine sarà lui a vincere. Sono convinto che siete in buona fede e posso capire il vostro timore che le tradizioni e la cultura di piccoli Stati vengano travolte dalla fondazione di uno Stato Mondiale, ma vi sbagliate: è inutile restare attaccati al passato. Ancora prima che i Superni arrivassero sulla Terra, lo stato sovrano era in agonia. Loro ne hanno accelerato la fine. Nessuno può salvarlo ora e nessuno dovrà tentare di farlo.» Non ci fu risposta. L’uomo che gli sedeva davanti non si muoveva, non parlava. Stava immobile, con le labbra socchiuse, gli occhi veramente spenti, ora, veramente gli occhi di un cieco. Anche gli altri erano immobili, impietriti in pose tese, innaturali. Con un’esclamazione soffocata Stormgren si alzò e indietreggiò verso la porta. In quell’istante, bruscamente, qualcuno parlò. «Simpatico discorso quello che avete fatto, Rikki, grazie! E ora, possiamo andare.» Stormgren si girò di scatto a scrutare nell’ombra del corridoio. Vide galleggiare nell’aria, all’altezza d’uomo, una piccola sfera; la fonte senza dubbio della forza misteriosa che i Superni avevano liberato. Stormgren non ne era sicuro, ma gli pareva di sentire un debole ronzio simile a quello di uno sciame d’api in un sonnacchioso pomeriggio d’estate. «Karellen! Dio sia lodato! Ma che cosa avete fatto?» «Non vi preoccupate, stanno benissimo. Sono in uno stato assai simile alla paralisi, ma in realtà è qualcosa di più… si dice subdolo? Stanno vivendo migliaia di volte più lentamente del normale. Noi ce ne andremo, e loro non sapranno mai che cosa sia accaduto.» «Resteranno così fino all’arrivo della polizia?» «No. Ho un piano migliore: li lascio liberi.» Stormgren provò un senso di sollievo. Lanciò un’ultima occhiata di commiato alla stanza e ai suoi occupanti impietriti. Joe stava ritto su un piede, fissando il vuoto con espressione stupita. Improvvisamente Stormgren scoppiò a ridere e si frugò in tasca. «Grazie dell’ospitalità, Joe» disse. «Voglio lasciarvi un ricordo.» Fece passare tra le dita i vari foglietti finché non ebbe trovato quel che cercava. Quindi, su un pezzetto di carta abbastanza pulito, scrisse con grande attenzione. «Alla Banca di Manhattan — Pagate per me a Joe la somma di centotrentacinque dollari e cinquanta cents (135,50). - R. Stormgren». Mentre deponeva il foglio sul tavolo davanti al polacco, udì la voce di Karellen chiedere: «Che cosa state facendo?» «Noi Stormgren paghiamo sempre i nostri debiti. Gli altri due baravano, ma Joe giocava onestamente. Almeno, non l’ho mai sorpreso in flagrante.» Si sentiva allegro e sollevato, di almeno quarant’anni più giovane, mentre si dirigeva verso la porta. La sfera di metallo sballonzolò da una parte per lasciarlo passare. Stormgren immaginò che fosse una qualche specie di robot, e la presenza della macchina spiegava come Karellen fosse riuscito a raggiungerlo attraverso gli sconosciuti corridoi scavati nello spesso strato di roccia che sovrastava il nascondiglio. «Andate diritto per un centinaio di metri» disse la sfera, sempre con la voce di Karellen «poi voltate a sinistra e proseguite finché non avrete altre indicazioni.» Stormgren si incamminò svelto, pur sapendo che non c’era nessuna necessità di correre. La sfera rimase a mezz’aria nel corridoio, probabilmente per coprire la sua fuga. Un minuto più tardi, Stormgren si trovò davanti a una seconda sfera, che lo aspettava a una biforcazione del corridoio. «Ora avete mezzo chilometro da percorrere» disse. «Piegate sempre a sinistra fin quando non ci ritroveremo.» Incontrò sei sfere lungo il suo percorso verso l’aria aperta. Dapprima si disse che forse l’automa riusciva a superarlo, poi pensò che doveva esserci tutta una catena di sfere, così da formare un circuito completo nella profondità della miniera. All’ingresso, un gruppo di uomini di guardia formavano un insieme scultoreo di dubbio effetto sotto la sorveglianza di un’altra delle sfere onnipresenti. Sul fianco dell’altura, a pochi metri di distanza, stava in attesa la navicella a bordo della quale Stormgren aveva fatto tutte le sue ascensioni verso l’astronave di Karellen. Per qualche secondo il Segretario Generale sbatté le palpebre, abbagliato dalla luce del sole. Poi vide le vecchie macchine e l’attrezzatura da miniera e oltre il macchinario, le rotaie in disuso che scendevano lungo il fianco del monte. A tre o quattro chilometri, una fitta foresta cingeva la base della montagna, e ancora più lontano Stormgren vide il luccichio dell’acqua di un grande lago. Immaginò di essere in qualche punto del Sud America ma non avrebbe saputo dire da cosa gli veniva questa impressione. Mentre saliva nella piccola macchina volante, Stormgren ebbe un’ultima fuggevole visione dell’imbocco della miniera e degli uomini impietriti davanti all’ingresso. Quindi lo sportello si chiuse, sigillandosi ermeticamente alle sue spalle, e con un sospiro di sollievo lui si sedette sulla familiare poltroncina imbottita. Per qualche istante attese di riprendere fiato, infine disse una sola parola, ma densa di significato. «Allora?» «Mi dispiace di non avervi potuto liberare prima. Ma avrete capito che era importante attendere che tutti i capi fossero riuniti.» «Volete dire» balbettò Stormgren «che avete sempre saputo dov’ero? Se avessi…» «Non siate tanto precipitoso» interruppe Karellen. «Almeno lasciate che finisca di spiegarvi.» «D’accordo» disse Stormgren, cupo. «Vi ascolto.» Cominciava a sospettare di essere stato l’esca di una trappola molto complicata. «Ho tenuto un… credo che si dica «rivelatore», puntato su di voi in questi ultimi tempi» cominciò Karellen. «Sebbene i vostri nuovi amici avessero ragione di credere che io non potevo seguire i vostri movimenti nel sottosuolo, vi ho comunque seguito fino alla miniera. Il passaggio dall’auto al camion sotto il tunnel è stata una trovata ingegnosa, ma quando la macchina non ha più risposto agli impulsi del rivelatore tutto è diventato chiaro, e in breve ho potuto ritrovarvi. Dopo, si è trattato soltanto di aspettare. Sapevo che, appena avessero avuto la certezza che avevo perso le vostre tracce, i capi sarebbero corsi alla miniera, così avrei potuto prenderli in trappola.» «Ma se mi avete detto che li lasciate in libertà!» «Fino a poco fa non potevo sapere quali fra i due miliardi e mezzo di abitanti del pianeta fossero i veri capi dell’organizzazione. Ora che sono stati identificati, posso rintracciarli in qualunque punto della Terra e, volendo, seguire ogni loro azione nei minimi particolari. Molto meglio che non chiuderli in una prigione. A ogni nuova mossa, tradiranno altri compagni. Sono praticamente neutralizzati, e lo sanno. La vostra scomparsa dalla miniera sarà del tutto inesplicabile per loro, perché avranno la sensazione di avervi visto scomparire sotto gli occhi.» La vibrante risata ben nota echeggiò nella cabina. «In un certo senso tutta questa storia è stata una buffonata, ma aveva un suo scopo molto serio. Non mi preoccupo semplicemente dei pochi uomini di questa organizzazione, devo anche pensare agli effetti che la notizia può avere sul morale degli altri gruppi esistenti in altre parti del mondo.» Stormgren rimase in silenzio a lungo. «Peccato che questo sia accaduto proprio nei miei ultimi giorni di carica» disse alla fine. «Ma d’ora in poi farò mettere una guardia alla mia casa. La prossima volta potrebbe essere rapito Pieter. Come se l’è cavata, a proposito?» «L’ho osservato con la massima attenzione in quest’ultima settimana e ho deliberatamente evitato di dargli il minimo aiuto. In complesso ha lavorato bene, ma non è l’uomo adatto a prendere il vostro posto.» «Meglio per lui. E, a proposito, avete avuto una risposta dai vostri superiori? Avete il permesso di rivelarvi a noi? Sono sicuro che questo è il più forte argomento a cui si attaccano i vostri nemici. Continuano a ripetere: «Non possiamo aver fiducia nei Superni finché non li vedremo in faccia».» Karellen sospirò. «No. Non ho avuto risposta. Ma so già quale sarà.» Stormgren non insistette. Una volta, forse, l’avrebbe fatto, ma ora la prima vaga ombra di un piano si andava delineando nella sua mente. Le parole del gallese cieco gli risuonavano nel cervello. Sì, forse si potevano ideare strumenti… Quello che aveva rifiutato di fare sotto costrizione, poteva tentarlo liberamente, di sua iniziativa. 3 Solo pochi giorni prima a Stormgren non sarebbe mai venuto in mente di prendere in seria considerazione quel progetto. Il suo ridicolo, melodrammatico rapimento, che a ripensarci gli sembrava un originale televisivo di terza serie, doveva avere molto a che fare col suo nuovo punto di vista. Era stata la prima volta in vita sua che Stormgren si era trovato a subire una violenza fisica, esperienza assai diversa dagli scontri verbali della sala delle conferenze. Doveva esserne rimasto contagiato, a meno che non stesse semplicemente entrando nella seconda infanzia prima del previsto! Una forte componente era data dalla curiosità e dalla decisione di vendicarsi in qualche modo del tiro che gli avevano giocato. Era evidente che Karellen l’aveva usato come specchietto per le allodole e anche se l’aveva fatto a buon fine, lui non si sentiva di perdonare tranquillamente il Supercontrollore. Pierre Duval non dimostrò sorpresa quando Stormgren entrò da lui senza farsi annunciare. Erano amici di vecchia data e non era insolito che il Segretario Generale facesse visita privatamente al capo del Dipartimento Scientifico. Anche Karellen non lo avrebbe trovato strano, se per caso lui, o qualcuno dei suoi, avesse puntato gli strumenti di sorveglianza su quella stanza. Per qualche minuto i due uomini parlarono di lavoro e si scambiarono pettegolezzi politici, poi, un po’ esitante, Stormgren venne al punto. Mentre il Segretario Generale parlava, il vecchio francese si abbandonò a poco a poco contro la spalliera della poltrona e le sue sopracciglia s’inarcarono, millimetro per millimetro, fin quasi a congiungersi con la radice dei capelli. Un paio di volte parve voler dire qualcosa, ma poi cambiò idea. Quando Stormgren ebbe finito, lo scienziato si guardò intorno nervosamente. «Non credi che ci stia ascoltando?» disse. «Secondo me, non può farlo. Ha un rivelatore, come lo chiama lui, puntato su di me a scopo di protezione, ma non opera nel sottosuolo, ed è questa una delle ragioni per cui sono venuto a trovarti in questa tua tana. Qui le pareti sono schermate contro ogni tipo di radiazioni, no? Be’, Karellen non è un mago. Certo sa dove sono, ma niente di più.» «Spero che sia come dici. Indipendentemente da questo, non ci saranno guai quando scoprirà quello che vuoi fare? Perché lo scoprirà, stai tranquillo.» «È un rischio che devo correre. E poi ci comprendiamo piuttosto bene.» Il fisico si mise a giocherellare con la matita, gli occhi persi nel vuoto. «Il problema è dei più interessanti. Mi piace» disse poi, semplicemente, e tuffata una mano in un cassetto ne tirò fuori un taccuino enorme, il più grande che Stormgren avesse mai visto. «Bene» cominciò, scrivendo furiosamente chissà che cosa in una specie di sua stenografia personale. «Vediamo se ho tutti gli elementi necessari. Dimmi tutto ciò che puoi del locale dove tenete i vostri incontri. Non omettere nessun particolare, per banale che ti sembri.» «Non c’è molto da descrivere. Ha le pareti di metallo, una superficie di circa quattro metri quadrati per quattro di altezza. Lo schermo è di circa un metro di lato, e c’è una piccola scrivania sotto lo schermo… ecco qua, sarà più chiaro se ti faccio uno schizzo.» Con pochi tratti di penna, Stormgren schizzò una pianta del locale che conosceva tanto bene e passò il disegno a Duval. In quell’attimo ricordò con un brivido l’ultima volta che aveva fatto lo stesso gesto e si domandò che fine avessero fatto il gallese e i suoi compagni, e come avessero reagito alla sua scomparsa. Duval studiò lo schizzo tormentandosi le labbra. «È tutto quello che puoi darmi?» «Già.» Duval sbuffò, indignato. «E l’illuminazione? Ve ne state lì al buio? E la ventilazione e il riscaldamento…» Stormgren sorrise alla caratteristica sfuriata di Duval. «L’intero soffitto è luminescente e a quanto ho potuto capire l’aria viene attraverso la griglia dell’altoparlante. Non so come avvenga il ricambio. Forse a intervalli il flusso si inverte, ma io non me ne sono accorto. Non c’è traccia d’impianto di riscaldamento, ma nel locale la temperatura è sempre normale.» «Il che significa che il vapore acqueo si congela e viene così eliminato, ma non l’anidride carbonica.» Stormgren tentò di ridere per la vecchia battuta scherzosa. «Credo con questo di averti detto tutto» concluse. «Quanto alla macchina volante che mi trasporta su fino all’astronave, la cabina in cui entro è anonima come quella di un ascensore. Se non ci fossero la poltrona e il tavolo potrebbe proprio essere un ascensore.» Seguirono alcuni minuti di silenzio, mentre lo scienziato disegnava complicati e microscopici ghirigori sul suo immenso taccuino. Guardandolo, Stormgren si chiese come mai un uomo dell’intelligenza di Duval, un’intelligenza assai più brillante della sua, non si fosse affermato maggiormente nel mondo scientifico. Ricordava l’ingegnoso e probabilmente ingiusto commento di un amico della delegazione americana: «Il francese è il miglior pensatore di second’ordine che esista». Duval era esattamente il tipo che suggeriva simili affermazioni. A un tratto il francese alzò la testa e, puntandogli contro la matita, disse: «Che cosa ti fa credere, Rikki, che lo schermo visore di Karellen sia proprio uno schermo?» «Ho sempre dato per scontato che lo fosse. È in tutto e per tutto simile a uno schermo di televisore. Del resto cos’altro potrebbe essere?» «Quando affermi che sembra lo schermo di un televisore, vuoi dire che assomiglia a uno dei «nostri» schermi, vero?» «Certo.» «È proprio questo che mi insospettisce. Sono sicuro che i Superni non usano niente di così primitivo come un teleschermo vero e proprio. Probabilmente sanno come materializzare le immagini direttamente nello spazio. E poi, perché Karellen dovrebbe prendersi la briga di usare un sistema TV? La soluzione più semplice è sempre la migliore: non sembra anche a te molto più probabile che il tuo «schermo televisivo» sia una lastra di vetro polarizzato?» Seccato con se stesso, Stormgren rimase zitto, a ricostruire nella memoria i passati incontri con Karellen. Fin dall’inizio non aveva mai messo in dubbio le affermazioni del Supercontrollore, questo era vero, però, ripensandoci, Karellen non gli aveva mai detto che si serviva del sistema televisivo. Era stato lui a darlo per scontato. Risultato di un capolavoro di inganno attuato psicologicamente e in cui era caduto in pieno. Sempre che la teoria di Duval fosse esatta. Doveva stare attento a non saltare di nuovo alle conclusioni, perché non era ancora stato dimostrato niente. «Se è così, basterà che io sfondi quella lastra di vetro…» Duval sospirò. «Questi profani! E credi proprio che sia fatto di sostanze che tu possa mandare in frantumi senza l’aiuto di esplosivi? E anche ammesso che tu riuscissi nell’intento, credi che Karellen possa respirare la nostra stessa aria? Sai che bello per tutti e due se lui respirasse cloro?» Stormgren si sentì ridicolo; ecco un’altra cosa che avrebbe dovuto pensare da solo. «Insomma, che cosa mi consigli?» domandò, con una punta d’esasperazione. «Bisogna che ci pensi: innanzitutto dobbiamo controllare l’esattezza della mia teoria» e, in caso positivo, scoprire di che cosa è fatto lo schermo. Affiderò le ricerche a un paio dei miei ragazzi. A proposito, immagino che tu abbia con te una cartella di pelle o qualcosa del genere quando vai dal Supercontrollore. È quella che hai adesso?» «Sì.» «Mi pare grande abbastanza. Sarà meglio non attirare l’attenzione sostituendola con un’altra, soprattutto se Karellen è abituato a vederla.» «Insomma, che cosa devo fare? Nascondere nella cartella un apparecchio a raggi X?» Il fisico sorrise. «Non lo so ancora, ma escogiteremo qualcosa. Saprai cosa sarà fra una quindicina di giorni.» Rise, e aggiunse: «Sai che cosa mi ricorda tutto questo?» «Sì» disse subito Stormgren «l’epoca in cui costruivi illegalmente apparecchi radio durante l’occupazione tedesca.» Duval parve deluso. «Forse te l’avevo già raccontato… Ma c’è un’altra cosa che voglio dirti.» «Sentiamo.» «Se ti scoprono, ricordati che io non ho mai saputo per quale motivo mi hai chiesto l’apparecchio, o quello che sarà.» «E hai il coraggio di dirmelo dopo tutto il chiasso che ti ho sentito fare una volta sulle responsabilità degli scienziati per le loro invenzioni? Pierre, mi vergogno di te!» Stormgren depose il grosso dattiloscritto con un sospiro di sollievo. «Grazie al cielo anche questo è sistemato, finalmente!» esclamò. «È strano pensare che in queste poche centinaia di pagine c’è il futuro del genere umano: lo Stato Mondiale. Non avrei mai creduto di vederlo realizzato!» Mise il plico nella cartella appoggiata ritta sulla scrivania col retro a non più di dieci centimetri dallo scuro rettangolo dello schermo. Ogni tanto le sue dita si gingillavano con i fermagli, per una reazione nervosa seminconscia, ma non intendeva premere l’interruttore nascosto prima che il colloquio fosse finito. «Avete detto di avere notizie per me» disse con malcelato interesse. «Si tratta forse…» «Sì» disse Karellen. «Ho ricevuto una risposta qualche ora fa. Non credo che la Lega della Libertà e i suoi associati saranno molto soddisfatti, ma la decisione dovrebbe contribuire a ridurre lo scontento. Mi avete detto, spesso, che indipendentemente dal grado di differenza fisica tra noi e voi, la razza umana si avvezzerebbe presto alla nostra vista. Ciò rivela mancanza d’immaginazione da parte vostra. Sarebbe probabilmente vero nel vostro caso personale, ma dovete ricordare che il mondo non si è ancora evoluto ed è tuttora gravato da superstizioni e pregiudizi che ci vorrebbero decenni a sradicare. Ammetterete che ne sappiamo qualcosa di psicologia umana. Sappiamo con precisione che cosa accadrebbe se ci rivelassimo oggi al mondo. Non posso entrare in particolari, nemmeno con voi, per cui vi prego di accettare la mia analisi in piena fiducia. Possiamo tuttavia fare questa promessa che dovrebbe darvi qualche soddisfazione: fra cinquant’anni, vale a dire tra due generazioni, noi scenderemo dalle nostre astronavi, e l’umanità allora ci vedrà come siamo.» Stormgren rimase a lungo in silenzio, assimilando le parole del Supercontrollore. Una volta se ne sarebbe sentito soddisfatto, ma ora… Era anzi confuso del suo parziale successo, e per un attimo la sua risoluzione vacillò. La verità sarebbe venuta a galla col passare del tempo: tutto il suo complotto era inutile e forse avventato. Se non desistette dal suo proposito, fu unicamente per l’egoistica ragione che di lì a cinquant’anni lui non ci sarebbe stato più. Karellen doveva avere avvertito la sua indecisione, perché aggiunse: «Dolente se la mia risposta vi delude, ma per lo meno i problemi politici del prossimo futuro non saranno di vostra responsabilità. Forse continuate a pensare che i nostri timori siano infondati, ma, credetemi, abbiamo avuto prove convincenti del pericolo che si corre prendendo qualunque altra via.» Stormgren si protese in avanti, respirando a fatica. «Ma allora voi siete già stati visti dall’uomo!» «Non ho detto questo» si affrettò a rispondere Karellen. «Il vostro mondo non è il solo pianeta di cui abbiamo preso il controllo.» Ma Stormgren non era tipo da lasciarsi fuorviare tanto facilmente. «Esistono molte leggende relative a visite che sarebbero state fatte alla Terra in passato, da altre forme di vita.» «Lo so. Ho letto il rapporto dell’Istituto di Ricerche Storiche. Secondo quella relazione, la Terra parrebbe il crocicchio più frequentato di tutto l’universo!» «Possono esserci state visite di cui voi non sapete niente» ribatté Stormgren, continuando speranzoso nella sua tattica aggirante. «Anche se l’eventualità di un fatto simile non sembra molto probabile, dato che voi ci state osservando da millenni.» «Appunto» disse Karellen, nel tono meno incoraggiante possibile. E in quell’istante Stormgren si decise. «Karellen» disse bruscamente «metterò per iscritto la vostra dichiarazione e ve la manderò per l’approvazione, ma mi riservo di continuare a tormentarvi e, qualora mi si offrisse l’occasione di scoprire il vostro segreto, non me lo lascerò sfuggire.» «Lo so benissimo» rispose il Supercontrollore con una risata. «E non ve la prendete?» «No, metto solo il veto alle armi nucleari, ai gas tossici, o qualsiasi cosa che rischi di rovinare la nostra amicizia.» Stormgren si chiese se Karellen non avesse intuito il suo piano. Sotto il tono scherzoso del Supercontrollore aveva sentito una nota di comprensione, forse — chi avrebbe potuto dirlo con certezza? — anche di incoraggiamento. «Avete fatto bene a dirmelo» ribatté Stormgren col tono più tranquillo e indifferente che poté. Si alzò chiudendo la busta di pelle. Il suo pollice indugiò sul bottone. «Preparo immediatamente il testo della dichiarazione» ripeté «e ve lo farò avere in giornata per telescrivente.» Così dicendo, premette il bottone… e seppe che tutti i suoi timori non avevano avuto fondamento. I sensi di Karellen non erano più sviluppati di quelli umani. Il Supercontrollore non doveva avere scoperto niente, perché non ci fu nessun cambiamento nella sua voce, quando, salutato Stormgren, pronunciò le parole in codice che comandavano l’apertura della porta. Pure Stormgren si sentiva come un taccheggiatore al momento di uscire da un grande magazzino quando passa sotto gli occhi del poliziotto di guardia, e trasse un sospiro di sollievo non appena la liscia parete si richiuse alle sue spalle. «Ammetto che un paio delle mie teorie non hanno avuto successo» disse Van Ryberg «ma ditemi che cosa ve ne pare di questa.» «Devo proprio?» sospirò Stormgren. Pieter non rilevò il tono annoiato del Segretario Generale. «Per la verità, non è un’idea mia» riprese, con modestia. «L’ho tratta da un racconto di Chesterton. Supponete che i Superni cerchino di tenere nascosto il fatto che non hanno niente da nascondere…» «Mi sembra una premessa un po’ complicata» disse Stormgren cominciando a interessarsi. «Cercherò di spiegarmi» continuò Van Ryberg con entusiasmo. «Io credo che fisicamente siano degli esseri umani come noi. Il punto è questo: essi si rendono conto che gli uomini potrebbero sopportare di essere governati da creature che immaginano, come dire… diverse e di intelligenza superiore, ma che, essendo l’uomo com’è, rifiuterebbe di obbedire a esseri della stessa specie.» «Ingegnosa come tutte le vostre teorie» disse Stormgren. «Mi piacerebbe che le enumeraste. Sarebbe più comodo per i riferimenti, non vi pare? La mia obiezione alla vostra ultima trovata…» Venne interrotto dall’arrivo di Alexander Wainwright. Stormgren si chiese che cosa passava per la testa del capo della Lega della Libertà. Si chiese anche se Wainwright si fosse messo in contatto con quelli che l’avevano rapito. Personalmente ne dubitava perché considerava autentica, genuina, la riprovazione di Wrinwright per ogni forma di violenza. Gli estremisti del suo movimento si erano screditati troppo e sarebbe passato del tempo prima che potessero tornare alla ribalta. Il capo della Lega ascoltò attentamente la lettura del comunicato, e Stormgren si augurò che apprezzasse quel gesto dovuto a un’idea di Karellen. Il resto del mondo avrebbe conosciuto solo fra dodici ore la promessa che i Superni avevano fatto ai figli dei figli. «Cinquant’anni» disse Wainwright, pensoso. «Un’attesa molto lunga.» «Per la razza umana, forse, ma non per Karellen» rispose Stormgren. Soltanto adesso il Segretario Generale cominciava a comprendere l’elegante soluzione dei Superni: quella promessa concedeva loro il respiro di cui avevano bisogno e tagliava le gambe alla Lega della Libertà. Stormgren non credeva che la Lega si sarebbe arresa, ma la sua posizione era sicuramente indebolita. Anche Wainwright doveva essersene reso conto. «In cinquant’anni il danno sarà fatto» disse amareggiato il capo della Lega. «Tutti quelli che hanno conosciuto i giorni della nostra indipendenza saranno ormai morti, e la razza umana avrà dimenticato il suo retaggio.» Parole… parole vuote, pensò Stormgren. Parole per le quali un tempo gli uomini combattevano e morivano, e per le quali non avrebbero combattuto mai più. E per il mondo era meglio così. Guardando Wainwright andar via, Stormgren si domandò quanti altri guai avrebbe causato la Lega nel futuro. Ma questo, pensò con animo leggero, era un problema di cui si sarebbe occupato il suo successore. E poi, certi mali solo il tempo poteva guarirli. Importante era non deludere gli uomini retti. Gli altri si poteva distruggerli. «Eccoti la tua busta di pelle» disse Duval. «Te la rendo come nuova.» «Grazie» disse Stormgren, esaminando ugualmente la borsa con molta attenzione. «Ora forse mi dirai il risultato e quale sarà la prossima mossa.» Ma il fisico sembrava immerso nei suoi pensieri. «Quello che non riesco a capire» disse «è la facilità con cui abbiamo raggiunto l’intento. Ora, se io fossi stato Karellen…» «Ma tu non sei Karellen. Avanti, vieni al punto, Duval! Si può sapere che cosa abbiamo scoperto?» «Ah, queste razze nordiche, ipertese, sovreccitabili!» sospirò il francese. «Quello che abbiamo inserito nella tua borsa era un radar di minima potenza, che sfrutta radioonde di altissima frequenza e l’estremo infrarosso, o per meglio dire tutte le onde che nessuna creatura vivente potrebbe vedere, avesse anche occhi soprannaturali.» «Come fai a esserne sicuro?» domandò Stormgren. «Non sono sicuro al cento per cento» ammise Duval, riluttante «ma Karellen ti riceve in un locale illuminato normalmente, no? Quindi i suoi occhi devono essere più o meno analoghi ai nostri, quanto a estensione spettrale. A ogni modo, il radar ha funzionato. Abbiamo avuto la prova dell’esistenza di una sala molto grande al di là del famoso schermo. Lo schermo ha uno spessore di tre centimetri, e lo spazio al di là si estende per almeno una decina di metri. Non abbiamo potuto ricevere nessuna eco della parete più lontana, ma non ci illudevamo con un radar di potenza minima. Comunque, ecco cos’abbiamo ottenuto.» Il francese spinse verso Stormgren una specie di fotografia che rappresentava un’unica linea alquanto larga. In un punto c’era come un nodo. Pareva il grafico indicante un leggero moto sismico. «Lo vedi quel segno?» domandò Duval. «Sì. Che cos’è?» «Karellen.» «Oh, Dio! Ne sei sicuro?» «È un’ipotesi ragionevolmente certa. Se ne sta in piedi o seduto, o chissà come, a due metri circa dallo schermo. Se il negativo fosse stato più chiaro, avremmo potuto calcolare le sue dimensioni.» Stormgren guardava la leggera traccia sul foglio provando sentimenti diversi e molto vaghi. Fino a un attimo prima non esistevano prove che Karellen possedesse un corpo fisico. Ora la prova era ancora indiretta, ma lui l’accettava senza obiezioni. «Inoltre» riprese Duval «abbiamo dovuto calcolare la penetrabilità dello schermo alla luce normale, e ora ne abbiamo un’idea abbastanza precisa. E anche se non è precisa al cento per cento, non importa. Tu capisci, naturalmente, che non esiste in realtà un vetro che lasci passare la luce in una sola direzione: si tratta soltanto di far cadere la luce secondo la giusta inclinazione. Karellen siede in una camera buia, tu sei in piena luce, e la cosa è fatta.» Duval ridacchiò. «Ma ora noi disporremo tutto in altro modo!» Con l’aria di un negromante che si accinga a evocare un demonio, si mise a frugare in un cassetto, da cui trasse infine un grosso flash. Un’estremità della lampada si dilatava in una specie di canna sfiatatoio così che tutto il congegno ricordava un vecchio trombone da briganti. Duval sorrise compiaciuto. «Non è così pericolosa come sembra. Non dovrai fare altro che puntare la bocca contro lo schermo e tirare il grilletto. La lampada emana un lampo fortissimo che dura una decina di secondi, durante i quali tu avrai tutto il tempo di spazzare in cerchio la stanza dietro lo schermo e goderti il panorama. Tutta la luce passerà attraverso lo schermo centrando il tuo amico come il fascio luminoso di un faro.» «Non rischierò di ferirlo?» «Basterà che tu tenga la canna un po’ abbassata prima di puntargliela contro, ciò darà tempo ai suoi occhi di adattarsi. Suppongo che abbia riflessi simili ai nostri… del resto non abbiamo nessuna intenzione di acce-carlo.» Stormgren guardò l’arma con aria dubbiosa, soppesandola tra le mani. Da qualche settimana la coscienza gli rimordeva. Karellen lo aveva sempre trattato con simpatia evidente, addirittura con affetto nonostante la sua franchezza a volte spietata, e Stormgren non voleva rovinare la loro amicizia ora che i loro rapporti ufficiali stavano per finire. Ma il Supercontrollore aveva ricevuto delle istruzioni precise, mentre Stormgren era convinto che, se Karellen fosse stato libero di decidere, si sarebbe mostrato agli uomini già da molto tempo. Ora avrebbe deciso lui per Karellen e, alla fine dell’ultimo incontro, Stormgren avrebbe visto la faccia del Superno. Ammesso che Karellen avesse una faccia. Il nervosismo che aveva colto Stormgren durante i primi istanti era passato. Quasi tutto il colloquio venne sostenuto da Karellen, intento a tessere le frasi complicate di cui ogni tanto mostrava di compiacersi. Un tempo questa particolarità era sembrata a Stormgren la più straordinaria e inattesa delle qualità di Karellen, ma ora non gli sembrava più tanto meravigliosa perché sapeva che, come quasi tutte le capacità del Supercontrollore, era l’effetto della forza intellettiva più che di un particolare talento. «Non vedo la necessità per voi, o il vostro successo, di preoccuparvi oltre misura per la Lega, nemmeno quando si sarà ripresa dal suo attuale stato di depressione. In questi ultimi mesi se n’è stata tranquilla e, anche se rinascesse, non rappresenterà pericolo per chissà quanti anni. Inoltre, dato che è sempre bene sapere quello che fa l’opposizione, la Lega della Libertà è un’istituzione assai utile. Anzi, qualora si trovasse in difficoltà finanziarie, potrei anche decidere di sovvenzionarla.» Più di una volta Stormgren si era accorto di non capire quando Karellen scherzava. Rimanendo impassibile, continuò ad ascoltare. «Tra breve la Lega perderà un altro degli argomenti ai quali si appoggiava. Molte critiche sono state mosse, e tutte alquanto puerili, all’incarico da voi svolto in questi ultimi anni. Per me il vostro lavoro è stato utile nei primi tempi della nostra amministrazione, ma ora che il mondo ha cominciato a muoversi lungo la linea di condotta segnata da me, il vostro intervento non è più necessario. In futuro tutti i miei rapporti con la Terra saranno indiretti, e l’ufficio del Segretario Generale può tornare alle sue funzioni di una volta. Nei prossimi cinquant’anni ci saranno molte crisi, ma si risolveranno tutte. Il futuro della Terra si presenta sereno, e un giorno tutte queste difficoltà saranno dimenticate, anche da una razza dalla memo-ria tenace come la vostra.» Le ultime parole furono dette in tono tanto significativo, che Stormgren si sentì gelare. Karellen non parlava mai a caso, e anche le sue indiscrezioni erano calcolate al decimillesimo. Ma non ci fu il tempo di far domande (a cui certamente sarebbe stato risposto) prima che il Supercontrollore cambiasse ancora argomento. «Mi avete spesso rivolto domande sui nostri piani a lunga scadenza» riprese Karellen. «La costituzione dello Stato Mondiale non è, naturalmente, che il primo passo. Prima che la vostra vita volga alla fine, ne vedrete il compimento, ma i cambiamenti saranno talmente impercettibili che pochi se ne accorgeranno. Poi seguirà un periodo di graduale consolidamento, mentre la vostra razza si preparerà all’incontro con la mia. E infine, verrà il giorno promesso. Mi dispiace che quel giorno voi non ci sarete.» Gli occhi di Stormgren erano bene aperti, con lo sguardo fisso su un punto oltre la opaca barriera dello schermo. Guardava il futuro, cercando d’immaginare il giorno che lui non avrebbe mai veduto, quando le grandi astronavi dei Superni sarebbero finalmente calate sulla Terra per spalancare i portelli al mondo in attesa. «Quel giorno» continuò Karellen «la razza umana conoscerà quella che si può definire una soluzione di continuità psicologica. Ma non gliene verrà alcun male: l’uomo di quel tempo sarà molto più saldo dei suoi padri. Noi saremo sempre stati parte della sua vita e quando ci vedrà non gli appariremo così… strani… come appariremmo a voi.» Stormgren non aveva mai sentito Karellen in una vena così pensosa e trasognata, ma non si stupì. Sapeva di non aver conosciuto che poche sfaccettature della personalità del Supercontrollore: il vero Karellen era sconosciuto, e forse inconoscibile, al genere umano. Ancora, Stormgren ebbe la sensazione che i veri interessi del Superno fossero altrove e che egli governasse la Terra soltanto con una frazione della sua mente, senza bisogno di concentrarsi, con la stessa facilità con cui un campione di scacchi tridimensionali gioca una partita a dama. «E poi?» domandò Stormgren dolcemente. «Potremo cominciare il nostro vero lavoro.» «Mi sono spesso domandato in che cosa consista. Mettere ordine nel nostro mondo e incivilire la razza umana è soltanto un mezzo. Avrete pure un fine. Noi non saremo mai in grado di emergere nello spazio cosmico e vedere il vostro universo… di aiutarvi nei vostri compiti?» «Potrebbe anche andare così» disse Karellen, e ora aveva nella voce una sfumatura chiarissima, se pure inesplicabile, di tristezza, che lasciò Stormgren stranamente turbato. «Ma se il vostro esperimento col genere umano fallisse? Noi abbiamo conosciuto questo genere di cose trattando con le razze umane primitive. Immagino che anche voi abbiate conosciuto delle sconfitte, no?» «Sì» disse Karellen, con voce talmente sommessa che Stormgren poté appena udirlo. «Anche noi abbiamo avuto le nostre sconfitte.» «E che cosa fate in questi casi?» «Aspettiamo, e poi ritentiamo.» Ci fu una pausa che durò forse cinque secondi. Quando Karellen parlò di nuovo, le sue parole furono così inattese che per un istante Stormgren non rispose. «Arrivederci, Rikki!» Karellen lo aveva raggirato abilmente ancora una volta., forse era già troppo tardi. La paralisi di Stormgren durò solo un attimo. Poi, con un sol gesto, rapido, preciso, trasse di tasca la pistola a lampo e la puntò contro il vetro. I pini arrivavano fin quasi sulle sponde del lago, lasciando libera soltanto una striscia erbosa, non più larga di qualche metro. Ogni sera, quando la stagione era sufficientemente calda, Stormgren, nonostante i suoi novant’anni, faceva una passeggiata su quella striscia erbosa fino all’imbarcadero, ad ammirare il sole al tramonto, per poi tornare a casa prima che il gelido vento notturno cominciasse a soffiare dalla foresta. Quella specie di rito gli dava soddisfazione, e lui intendeva continuarlo fino a quando avesse avuto la forza di reggersi. Basso sul lago, un aereo avanzava veloce da ponente. A parte i grandi apparecchi delle linee transpolari che volavano a quote altissime, non capitava spesso di vedere aerei da quelle partì. Il velivolo era un piccolo elicottero e puntava deciso nella sua direzione. Stormgren lanciò un’occhiata lungo la spiaggia e non vide possibilità di fuga. Con un’alzata di spalle, si sedette allora su una panchina all’estremità del molo. Il giornalista si dimostrò così deferente che Stormgren rimase sbalordito. Si era quasi dimenticato di essere non solamente un vecchio statista a riposo ma, oltre i confini del suo Paese, una figura quasi leggendaria. «Signor Stormgren» cominciò il giornalista «sono desolato di disturbarvi, ma sareste disposto a fare qualche commento a proposito di una cosa che abbiamo appena saputo a proposito dei Superni?» Stormgren aggrottò la fronte. Dopo tanti anni, condivideva ancora l’avversione di Karellen per quella parola pomposa e inadeguata. «Non credo» rispose «che io possa aggiungere altro a quanto è già stato scritto.» Il giornalista lo osservava con intensa curiosità. «Credo che possiate, invece. Ci è giunta una notizia alquanto curiosa. Sembra che quasi trent’anni fa, uno dei fisici del Dipartimento Scientifico abbia costruito per voi alcuni strumenti complicati. Vorremmo saperne qualche cosa.» Per un istante Stormgren non rispose, riandando con la memoria al passato. Non lo sorprendeva che il segreto fosse stato scoperto. Anzi, era sorprendente che fosse stato mantenuto per tanti anni. Cominciò a camminare lungo il molo, col giornalista che lo seguiva a due o tre passi di distanza. «La notizia» disse «contiene una parte di verità. In occasione della mia ultima visita sull’astronave di Karellen portai con me un congegno nella speranza che mi consentisse di vedere il Supercontrollore. Fu un gesto molto sciocco da parte mia, ma… be’, avevo solo sessant’anni, a quel tempo!» Ridacchiò per conto suo, e riprese: «Non valeva la pena di trasvolare il lago. Perché, vedete, il congegno non funzionò.» «Non avete visto niente?» «Niente nel modo più assoluto. Temo che dovrete aspettare ancora… dopo tutto, mancano solo vent’anni!» Ancora vent’anni d’attesa! Sì, Karellen aveva avuto ragione. Allo scadere di quei cinquant’anni il mondo sarebbe stato preparato, come non lo era ancora quando Stormgren aveva detto a Duval, quasi un trentennio prima, la stessa bugia che aveva detto ora al giornalista. Karellen s’era fidato di lui, e Stormgren non aveva tradito la sua fiducia. Era certo più d’ogni altra cosa al mondo che il Supercontrollore aveva saputo del suo piano fin dal primo momento e previsto ogni mossa della fase conclusiva. Diversamente, perché mai avrebbe dovuto già essere vuota l’enorme poltrona quando il cerchio di luce l’aveva illuminata? Immediatamente Stormgren aveva fatto roteare il raggio luminoso, temendo che fosse ormai troppo tardi. La porta metallica, altissima, si stava chiudendo rapidamente, ma non tanto rapidamente quanto sarebbe stato necessario. Sì, Karellen aveva avuto fiducia in lui e non aveva voluto che si allonta-nasse per la lunga sera della sua vita ossessionato da un mistero che non avrebbe mai potuto risolvere. Pur non osando sfidare gli ignoti poteri a cui doveva obbedienza (erano essi pure della stessa razza?), Karellen aveva fatto tutto quello che aveva potuto. Aveva disobbedito, ma loro non ne avrebbero mai avuto la prova. E quella era stata la dimostrazione definitiva dell’affetto che Karellen nutriva per Stormgren. Anche se si poteva paragonarlo all’affetto di un uomo per un cane intelligente e fedele, non era per questo un affetto meno sincero, e Stormgren aveva avuto poche soddisfazioni più grandi in tutta la sua vita. «Abbiamo avuto anche noi le nostre sconfitte». Sì, Karellen, era vero, ed eravate voi quello che fu sconfitto avanti l’alba della storia umana? Deve essere stata una grande sconfitta davvero, pensava Stormgren, se l’eco era rotolata giù per tutti gli evi, a ossessionare l’infanzia d’ogni razza umana. Sarebbero bastati cinquant’anni per vincere il potere di tutti i miti e le leggende del mondo? Eppure Stormgren sapeva che non ci sarebbe stata una seconda sconfitta. Quando le due razze si fossero incontrate di nuovo, i Superni si sarebbero conquistata la fiducia e l’amicizia del genere umano e nemmeno il colpo della rivelazione avrebbe potuto distruggere la loro opera. Sarebbero andati insieme incontro al futuro, e la tragedia che aveva incupito il passato con la sua ombra si sarebbe perduta per sempre in fondo agli oscuri meandri della preistoria. E Stormgren sperò che, quando fosse stato libero di porre ancora una volta il piede sulla Terra, Karellen sarebbe venuto un giorno tra le foreste della Finlandia boreale a sostare un poco presso la tomba del primo uomo che mai gli fosse stato amico. PARTE SECONDA L’ETÀ DELL’ORO 4 «Ecco la grande giornata!» comunicavano in cento lingue gli apparecchi radio. «Il gran giorno è venuto!», proclamavano i titoli di prima pagina di mille quotidiani. «Oggi è il gran giorno!» pensavano gli operatori delle telecamere, controllando le loro macchine disposte intorno al grande spiazzo dove l’astronave di Karellen doveva calare. C’era soltanto la grande nave ammiraglia ora, sospesa nel cielo di New York. Infatti, come il mondo aveva appena scoperto, le astronavi immobili nel cielo delle altre città dell’uomo non erano mai esistite. Il giorno prima, la gran flotta dei Superni si era dissolta nel nulla, svaporando come la nebbia sotto la rugiada del mattino. Le navi di rifornimento, che andavano e venivano dalle profondità dello spazio cosmico, erano state reali; ma le vaste ombre d’argento che erano rimaste sospese per la durata di una vita umana su quasi tutte le capitali della Terra erano soltanto illusione. Nessuno avrebbe saputo dire in che modo era stata creata l’illusione, ma sembrava che ognuna di quelle astronavi non fosse stata che un’immagine dell’ammiraglia di Karellen. Ma era stato ben mollo più di un abile gioco di luci, perché anche i radar si erano lasciati ingannare, e vivevano ancora persone pronte a giurare di aver sentito il sibilo lamentoso dell’aria squarciata dalle prore astrali quando la flotta era penetrata nell’atmosfera della Terra. Ma questo non era importante: ciò che ora importava davvero era il fatto che Karellen non vedesse più la necessità di uno spiegamento di forze. Aveva rinunciato alle sue armi psicologiche. «L’astronave si muove!» corse la voce, spargendosi fulminea su tutto il pianeta. «Si dirige verso ponente!» A meno di mille chilometri all’ora, scendendo mollemente dalle vuote altezze della stratosfera, l’astronave muoveva verso le grandi praterie, puntuale al suo secondo convegno con la storia. Si adagiò dolcemente sul terreno davanti agli obiettivi in attesa e alle migliaia e migliaia di spettatori addensati in lunghe file, ben pochi dei quali potevano vedere tutto ciò che vedevano i milioni di uomini e donne riuniti davanti ai televisori. Il terreno avrebbe dovuto spaccarsi e tremare sotto il peso incredibile della nave immensa, ma lo scafo era ancora nella morsa delle forze cosmiche che le permettevano di navigare tra le stelle. Baciò la terra con la delicatezza di un fiocco di neve. A venti metri d’altezza dal suolo, la gran parete ricurva parve scorrere e tremolare: dove c’era fino a un attimo prima una superficie liscia e levigata, rilucente come la piastra di uno scudo, comparve una vasta apertura. Non si vide niente dell’interno. Non videro niente nemmeno gli occhi inquisitori delle macchine da presa. Era scura come l’ingresso di una caverna. Poi, un’ampia passerella scintillante ne sporse e cominciò a scorrere verso il basso. La si sarebbe detta una lunga lastra di metallo compatto con balaustre ai due lati. Non si vedevano scalini: era liscia e ripida come una pista di toboga e sembrava impossibile salirla o scenderla con mezzi normali. Il mondo intero stava guardando quel nero portale entro cui niente ancora si muoveva. Quindi la voce, udita di rado ma indimenticabile di Karellen, si diffuse dolcemente provenendo da una fonte ben celata. Il suo messaggio non sarebbe potuto essere più inatteso. «Ci sono dei bambini ai piedi della passerella. Gradirei che due di loro salissero a incontrarmi.» Per un istante regnò un immenso silenzio. Quindi un bambino e una bambina uscirono dalla folla e si diressero, senza il minimo timore, verso la passerella per entrare nella storia. Altri li seguirono, ma si fermarono di colpo quando dalla nave giunse la risata di Karellen. «Due bastano.» Impazienti, pregustando già l’avventura, i due bambini — non dovevano avere più di sei anni — saltarono sulla pista metallica. E fu allora che si verificò il primo miracolo. Salutando allegramente con la mano la folla sottostante e i loro genitori, che probabilmente si ricordavano in ritardo della leggenda del Pifferaio di Hamelin, i bambini cominciarono a salire rapidamente sul piano incredibilmente inclinato. Ma le loro gambe erano immobili, e in breve si vide che i loro corpi erano inclinati ad angolo retto con la strana passerella che possedeva una sua propria forza di gravità, evidentemente capace di annullare quella della Terra. I bambini stavano ancora godendo la novità di quell’esperienza, chiedendosi forse quale fosse la forza che li attirava verso l’alto, quando scomparvero nell’interno della nave. Un immenso silenzio calò sul mondo intero per lo spazio di venti secondi; anche se in seguito nessuno poté credere che l’intervallo fosse stato tanto breve. Poi l’ombra densa della grande apertura parve venire in avanti, e improvvisamente Karellen si materializzò nella luce del sole. Aveva il bambino seduto sul braccio sinistro, la bimba rannicchiata sul destro. Erano entrambi troppo occupati a giocare con le ali di Karellen per osservare la folla. Fu un omaggio alla psicologia dei Superni e agli anni della loro meticolosa preparazione, che solo pochissimi dei presenti svenissero. Ma dovettero essere in numero ancora minore quelli che in tutto il mondo non sentirono un brivido dell’antico terrore sfiorare per un orribile istante le loro menti, prima che la ragione lo bandisse per sempre. Non c’era da sbagliarsi. Le ali di cuoio, le piccole corna, la coda forcuta erano là sotto gli occhi di tutti. La più terribile di tutte le narrazioni mistiche si era fatta realtà, uscendo da un passato lontanissimo. Ma ora stava sorridendo, in una sua maestà di ebano, con la luce del sole scintillante sul corpo terribile, e con un bambino d’uomo accoccolato su ogni braccio. 5 Cinquant’anni sono un periodo di tempo sufficientemente lungo a mutare un mondo e la sua popolazione fino a renderli irriconoscibili. Tutto quello che occorre è una profonda conoscenza della tecnica, una veduta molto chiara della mèta che ci si prefigge e potenza. Tutte cose che i Superni possedevano. Sebbene il loro fine fosse un segreto, la loro scienza era palese, come la loro potenza. Questo potere si esplicava in forme diverse, forme che spesso non erano capite dai popoli al cui destino i Superni avevano presieduto. La potenza era rappresentata dalle grandi astronavi, e quelle, tutti potevano vederle. Ma dietro questa evidente forma di forza c’erano altri mezzi, e più sottili. «Ogni problema politico» aveva detto una volta Karellen a Stormgren «può essere risolto dal corretto uso del potere.» «Mi sembra una affermazione alquanto cinica» aveva risposto Stormgren, poco convinto. «Sa un po’ di «Volere è potere». Nel nostro passato sono infiniti gli esempi di problemi che il potere non è riuscito a risolvere.» «C’è un errore sostanziale. Voi non avete mai posseduto né potere reale né le capacità indispensabili per applicarlo. In questo, come in ogni problema, esistono modi efficaci o inefficaci di affrontare la soluzione. Supponete, ad esempio, che una delle nazioni terrestri sotto la guida di un capo fanatico tenti di ribellarsi a me. La risposta più inefficace a una minaccia del genere sarebbe l’uso dell’immensa energia racchiusa nelle bombe atomiche. Usando un certo numero di bombe si avrebbe una soluzione completa e definitiva. Ma, come ho detto, sarebbe una soluzione inefficace, anche a non voler tener conto degli altri difetti.» «E quale sarebbe la soluzione efficace?» «Quella che non richiede più potenza di una minuscola radio trasmittente, ma esige le stesse qualità occorrenti per costruire e far funzionare una simile radio. È il modo d’impiegare la potenza, qualunque potenza, non la quantità. Quanto credete che sarebbe durata la carriera di dittatore di Hitler se sempre, in qualsiasi posto, una voce tranquilla, pacata, gli avesse parlato all’orecchio? O se una nota musicale, sufficientemente alta da superare ogni altro suono e da impedirgli di dormire, gli fosse risuonata nel cervello giorno e notte? Niente di brutale, come vedete, eppure in ultima analisi un sistema infallibile come una bomba all’idrogeno.» «Capisco» disse Stormgren. «E non sarebbe possibile sfuggire a questo sistema?» «Non esiste nascondiglio dove i miei… diciamo sistemi non possano penetrare se io lo voglio. Ecco perché non devo mai ricorrere ai tradizionali mezzi drastici per conservare la mia posizione.» Le grandi astronavi dei Superni non erano mai state altro che dei simboli, e adesso il mondo sapeva che solo una, solo quella di Karellen esisteva veramente: le altre erano soltanto immagini. Eppure era bastata la loro presenza a cambiare la storia della Terra. Adesso il loro compito era finito, ma l’eco di quel che avevano fatto sarebbe durato per secoli. I calcoli di Karellen erano stati esatti. Il primo istante di repulsione era passato rapidamente, sebbene fossero molti coloro che, mentre si vantavano di essere immuni d’ogni superstizione, non sarebbero mai stati capaci di guardare in faccia uno dei Superni. C’era qualche cosa di strano in questo, qualcosa che andava al di là della ragione e della logica. Nel Medio Evo, la gente credeva nel diavolo e lo temeva. Ma ora si viveva nel XXI secolo: possibile che, dopo tutto, esistesse ancora una memoria razziale? Se ne era universalmente dedotto che i Superni, sempre uomini della stessa specie, si fossero trovati in conflitto violento con l’uomo preistorico, in un passato molto remoto dato che l’urto non aveva lasciato tracce nella storia scritta. Era questo un altro rompicapo, ma Karellen non aveva voluto dare nessun aiuto per la soluzione. I Superni, sebbene si fossero ora mostrati all’uomo, lasciavano molto di rado la loro unica nave. Forse stare coi piedi sulla Terra era fisicamente penoso, dato che le loro dimensioni e l’esistenza delle ali indicavano la provenienza da un mondo di gravità notevolmente inferiore a quella terrestre. Non li si vedeva mai senza una cintura adorna di meccanismi complessi, che, si credeva generalmente, regolavano il loro peso e permettevano loro di comunicare l’uno con l’altro. La luce solare diretta era penosa ai loro occhi tanto che non vi restavano esposti più di qualche secondo. Quando dovevano uscire allo scoperto per una qualunque durata di tempo, portavano occhiali che conferivano loro un aspetto per lo meno incongruo. Quantunque sembrassero in grado di respirare l’aria terrestre, spesso portavano con sé dei piccoli cilindri di gas, a cui ogni tanto attinge-vano per rinfrescarsi i polmoni. Sotto molti punti di vista, la comparsa dei Superni aveva posto più problemi di quanti ne avesse risolti. La loro origine era ancora sconosciuta, la loro costituzione biologica fu fonte d’interminabili supposizioni. Di molti argomenti davano la spiegazione liberamente, ma a proposito di altri si poteva dire che il loro atteggiamento era ispirato al più geloso riserbo. Nell’insieme, tuttavia, ciò dispiaceva solo agli scienziati. L’uomo medio, pur preferendo non doversi incontrare coi Superni, era loro grato per quello che avevano fatto di bene al suo mondo. Dal punto di vista di ère precedenti, era l’avvento di Utopia. Ignoranza, malattie, povertà e timore erano virtualmente scomparsi. Il ricordo della guerra sfumava nel passato come un incubo si dissolve ai primi albori: in breve sarebbe rimasta al di là delle esperienze di tutti i vivi. Con le energie del genere umano incanalate in numerosi sensi costruttivi, la faccia del mondo era stata rifatta. Era, quasi alla lettera, un nuovo mondo, le città che si erano rivelate utili alle generazioni precedenti erano state ricostruite o abbandonate, o trasformate in oggetti da museo quando avevano cessato di servire qualunque scopo utile. Molte città erano già state abbandonate in tal modo, perché tutto il sistema industriale e commerciale era cambiato radicalmente. La produzione adesso era prevalentemente automatica: le fabbriche-automa rovesciavano sul mercato beni di consumo in tali ininterrotte fiumane che tutti i generi di prima necessità erano virtualmente gratuiti. Gli uomini lavoravano per i generi voluttuari preferiti: o non lavoravano affatto. Era Un Solo Mondo. Gli antichi nomi delle nazioni erano ancora in uso, ma non rappresentavano più che comode divisioni postali. Non c’era nessuno sulla Terra che non parlasse inglese, che fosse analfabeta, che non si trovasse nelle immediate vicinanze di un televisore, che non potesse visitare l’altro emisfero entro ventiquattr’ore. La delinquenza era praticamente scomparsa. Era diventata inutile, e impossibile. Quando a un individuo non manca niente, rubare non ha senso. Inoltre, ogni criminale in potenza sapeva che era impossibile sfuggire alla sorveglianza dei Superni. Ai primordi del loro dominio, questi erano intervenuti con tale prontezza ed efficacia a favore della legge e dell’ordine, che la lezione non era stata più dimenticata. Degli stessi delitti passionali, anche se non del tutto scomparsi, non si sentiva quasi più parlare. Ora che tanti dei suoi problemi psicologici erano stati risolti, l’umanità era di gran lunga più sana e meno irrazionale. E quel-lo che generazioni precedenti avrebbero chiamato vizio non era più ormai che, nel peggiore dei casi, una dimostrazione di cattivo gusto o di scarsa educazione. Uno dei mutamenti più notevoli era stato il placarsi del folle ritmo che aveva caratterizzato la vita quotidiana del ventesimo secolo. La vita era molto più tranquilla di quanto non lo fosse stata da generazioni. Aveva sì meno sapore per qualcuno, ma molta più tranquillità per tutti gli altri. L’uomo occidentale aveva reimparato, cosa che il resto del mondo non aveva mai dimenticato, che non c’era niente di peccaminoso nel piacere, ove questo non degenerasse nella mollezza e nella inettitudine. Quali che fossero i problemi che l’avvenire riserbava all’uomo, il tempo non gravava ancora troppo sulle sue mani. Gli studi erano molto più completi e duravano più a lungo. Pochissimi erano coloro che lasciavano gli studi prima dei vent’anni: e questa era la prima fase, perché solitamente li si riprendeva a venticinque, per altri tre anni, dopo che viaggi ed esperienze vissute avevano allargato la mente. Ma anche dopo avrebbero continuato a intervalli di qualche anno a seguire corsi supplementari per tutto il resto della vita, scegliendo le discipline che più li attirassero. Un’altra trasformazione fu rappresentata dall’estrema mobilità della nuova società. Grazie alla perfezione dei trasporti aerei, ognuno era libero di recarsi ovunque in qualunque momento, senza prenotazioni o preavvisi di sorta. C’era più spazio nel cielo di quanto ce ne fosse mai stato sulle strade, e il ventunesimo secolo aveva ripetuto su più vasta scala l’impresa grandiosa compiuta dagli Stati Uniti nel motorizzare una intera nazione. Il ventunesimo secolo aveva dato al mondo le ali. Ma era un modo di dire. Il comune aereo privato, o aeromobile, non aveva affatto le ali, nemmeno la più piccola sporgenza d’un controllo di superficie. Perfino le goffe pale del motore degli antichi elicotteri erano state bandite. Ma l’uomo non aveva scoperto l’anti-gravità: soltanto i Superni possedevano quest’ultimo segreto. I loro aeromobili erano mossi da forze che i fratelli Wright non avrebbero capito. I reattori a getto, usati tanto direttamente quanto nella forma più progredita di controllo a strato-limite, spingevano i velivoli e li mantenevano nello spazio. Quello che nessuna norma e nessun editto dei Superni avrebbe potuto fare altrettanto bene, l’abolizione delle ultime frontiere tra le diverse tribù del genere umano, l’avevano fatto i piccoli onnipotenti aeromobili dei singoli cittadini del mondo. C’erano mutamenti anche più profondi. Era un evo del tutto laico. Delle fedi esistite prima dell’avvento dei Superni, solo una forma puritana di buddismo, la più austera, forse, di tutte le religioni, sopravviveva ancora. Ma sebbene pochissimi, per il momento, se ne accorgessero, il declino della religione fu accompagnato da un declino della scienza. C’era una pletora di tecnologi, ma pochi erano gli originali pensatori che sapessero estendere le frontiere delle conoscenze umane. Restava la curiosità, insieme con il tempo e l’agio di potervi indulgere, ma dalle ricerche scientifiche fondamentali era stato strappato il cuore. Sembrava futile spendere un’intera esistenza alla ricerca di segreti che i Superni avevano già svelato da millenni. Questo declino era stato parzialmente velato da un’enorme fioritura delle scienze descrittive, quali zoologia, botanica e astronomia. Non c’erano mai stati tanti scienziati dilettanti che raccogliessero dati per semplice svago, ma erano pochi i teorici che ponessero in correlazione tra loro questi dati. La fine della lotta per la vita e dei conflitti d’ogni genere aveva anche segnato la fine virtuale delle arti creative. Esistevano miriadi di esecutori e operatori, dilettanti e professionisti, ma in realtà non si producevano nuove opere di autentico rilievo nel campo della letteratura, della musica, della pittura e della scultura, da almeno una generazione. Il mondo viveva ancora delle glorie d’un passato che non poteva tornare. Nessuno se ne preoccupava, eccettuato qualche filosofo. La specie era troppo intenta ad assaporare la libertà di recente acquisizione per voler guardare oltre i piaceri del presente. L’avvento di Utopia era finalmente un fatto compiuto: la novità non era ancora stata intaccata dal più grande nemico di tutte le Utopie: la noia. Forse i Superni possedevano la risposta a ciò, come la possedevano per ogni altro problema. Nessuno lo sapeva, non più di quanto gli uomini sapessero, a un’intera esistenza dal loro arrivo, quale fosse il loro scopo ultimo. Il genere umano si era abituato ad avere fiducia in loro e ad accettare senza domande l’altruismo sovrumano che aveva tenuto per tanto tempo Karellen e i suoi simili esuli dalle loro case. Sempre che fosse altruismo. Perché c’era ancora chi si domandava se la politica dei Superni sarebbe sempre coincisa col vero benessere dell’umanità. 6 Quando Rupert Boyce diramò gli inviti per la festa, la somma delle distanze espresse in miglia o chilometri risultò impressionante. Per elencare soltanto i primi dodici invitati, c’erano i Foster, che venivano da Adelaide, in Australia, gli Shoenberger da Haiti, i Farran da Stalingrado, i Moravia da Cincinnati, gli Invanko da Parigi e i Sullivan dai paraggi immediati dell’Isola di Pasqua, ma a quattro chilometri di distanza, presumibilmente, sul fondo dell’oceano. Fu un omaggio particolare a Rupert che, sebbene fossero stati invitati una trentina di ospiti, si presentarono alla villa più di quaranta persone: la percentuale che più o meno Rupert aveva previsto. Soltanto i Krause lo delusero, ma fu perché non avevano tenuto conto della differenza di data a causa dei fusi orari, e arrivarono così ventiquattr’ore più tardi. A mezzogiorno una raccolta imponente di aerei si era radunata nel parco, e gli ultimi arrivati dovettero percorrere un bel tratto a piedi, dopo aver trovato un punto favorevole all’atterraggio. Gli apparecchi parcheggiati erano di ogni tipo, dai Fitterburg monoposto alle Cadillac per famiglia, molto più simili a palazzi aerei che a nervose macchine volanti. In quell’èra tuttavia non si poteva dedurre lo stato sociale degli invitati dai loro mezzi di trasporto. «Ma che brutta villa» disse Jean Morrei, mentre il loro Meteor scendeva a spirale. «Sembra una scatola su cui qualcuno abbia appoggiato un piede.» George Greggson, che aveva un’antipatia d’altri tempi per gli atterraggi automatici, modificò l’angolo d’inclinazione prima di rispondere. «Non si può giudicare la villa guardandola da quassù. A livello del terreno si presenta in tutt’altro modo. Oh, povero me!» «Che cosa è successo?» «Ci sono anche i Foster. Riconoscerei quelle sfumature di vernice ovunque.» «Be’, nessuno ti obbliga a rivolgere loro la parola, se non vuoi. C’è questo vantaggio almeno, alle feste organizzate da Rupert: puoi sempre nasconderti in mezzo alla folla degli invitati.» George aveva scelto un punto d’atterraggio e ora vi stava scendendo in picchiata. Andarono a posarsi librandosi lievi tra un altro Meteor e un coso che nessuno dei due riuscì a identificare. Aveva l’aria di essere velocissimo, pensò Jean, e terribilmente scomodo. Uno dei tecnici amici di Rupert, immaginò lei, l’aveva probabilmente costruito con le sue mani. Le pareva che ci fosse una legge che proibiva questo genere di cose. Il calore li colpì come la vampa di una fiamma ossidrica nell’istante in cui smontarono dall’apparecchio. Parve succhiare tutta l’umidità dei loro corpi, e George ebbe l’impressione che gli scricchiolasse la pelle. In parte era colpa loro, però. Erano partiti dall’Alaska tre ore prima, e avrebbero anche potuto pensare a condizionare la temperatura della cabina concordemente. «Che razza di posto per abitare!» boccheggiò Jean. «Credevo che questo clima fosse condizionato!» «Così è infatti» rispose George. «Qui era tutto deserto, un tempo; e guarda adesso che vegetazione! Vieni, staremo divinamente, una volta entrati in casa.» La voce di Rupert, un po’ più alta del volume naturale, rimbombò allegramente nelle loro orecchie. L’ospite era ritto presso l’aereo, un bicchiere in ogni mano, e li guardava dall’alto in basso con aria sorniona. Ma li guardava dall’alto in basso per la semplice ragione che era alto almeno tre metri e mezzo ed era anche semitrasparente. Si poteva guardare attraverso il suo corpo senza la minima difficoltà. «Bello scherzo da fare all’ospite, che dovrebbe essere sacro!» protestò George. Aveva allungato una mano verso i bicchieri, e la mano c’era passata attraverso, come se i bicchieri fossero fatti d’aria. «M’auguro che tu abbia qualche cosa di meno rarefatto, per noi, quando saremo dentro.» «Non ti preoccupare» disse Rupert. «Ordina da qui e troverai ogni cosa che ti aspetta appena sarai entrato!» «Due birre grandi raffreddate in aria liquida» disse George prontamente. «Arriveremo fra un minuto.» Rupert annuì, depose uno dei suoi bicchieri su un’invisibile tavola, regolò una leva altrettanto invisibile e scomparve di colpo. «Però!» disse Jean. «È la prima volta che vedo uno di questi congegni in azione. Come ha fatto Rupert a procurarselo? Credevo che solo i Superni li avessero.» «Hai mai saputo che Rupert non sia riuscito ad avere qualche cosa che voleva?» rispose George, «È proprio il balocco che fa per lui. Mentre se ne sta tranquillamente seduto nel suo studio, può andarsene in giro per mezza Africa. Niente caldo, niente insetti, nessuno sforzo, e il bar sempre a portata di mano. Sarei curioso di sapere che ne avrebbero detto Stanley e Livingstone!» Il sole troncò ogni altro scambio di parole fino a quando non furono davanti alla villa. Erano giunti sulla porta, che non era molto facile a distinguersi dal resto della parete di vetro che si levava loro dinanzi, quando la porta si spalancò automaticamente fra un tripudio di fanfare. Jean pensò, e a ragione, che ne avrebbe avuto fin sopra i capelli di quelle fanfare, prima che la festa fosse finita. La signora Boyce del momento li accolse nella deliziosa frescura dell’ingresso. A dire la verità, era lei la principale ragione di tanto concorso di invitati. Non più della metà sarebbe venuta in ogni caso per vedere la nuova villa di Rupert: gli incerti si erano decisi in virtù di ciò che si diceva della nuova moglie di Rupert. Soltanto un aggettivo poteva descriverla adeguatamente: sconvolgente. Anche in un mondo dove la bellezza muliebre era ormai comune, gli uomini voltavano la testa al suo passaggio. Doveva avere nelle vene, sospettò George, una discreta percentuale di sangue negro: il profilo era squisitamente greco, e i capelli lunghi, folti e morbidi. Solo la trama bruna, compatta, della pelle, la troppo usata parola «cioccolata» era l’unica che potesse definirla, rivelava la sua origine mista. «Siete Jean e George, non è vero?» disse la bella donna porgendo la mano. «Sono così lieta di conoscervi! Rupert sta facendo non so che cosa complicata con le bibite… Su, accomodatevi, e fate la conoscenza di tutti gli altri!» Aveva una voce vibrante, da contralto, che fece correre piccoli brividi per la spina dorsale di George, come se qualcuno gli stesse suonando il piffero sulla colonna vertebrale. Lanciò un’occhiata inquieta a Jean, che era riuscita a mettere insieme un sorriso alquanto artificioso, e finalmente ritrovò la voce. «È un gran piacere conoscervi» disse, penosamente. «Non vedevamo l’ora di venire alla vostra festa.» «Rupert dà sempre delle feste meravigliose» intervenne Jean. Ma dal modo con cui aveva calcato la voce su quel «sempre», si capiva che aveva voluto dire: «Ogni volta che si sposa». George arrossì lievemente, e lanciò a Jean un’occhiata di rimprovero, ma non ci fu nessun indizio che la loro ospite avesse accusato la frecciata. Cordialità fatta persona, li introdusse nel salone già gremito da una bella rappresentanza di amici di Rupert. Lui sedeva davanti al quadro di una specie di telecamera: il congegno, senza dubbio, ritenne George, che aveva proiettato la sua immagine nel parco per dare loro il benvenuto. In quel momento era occupatissimo a darne dimostrazione, sorprendendo altri due invitati nell’istante in cui scendevano nella zona di atterraggio, e s’interruppe giusto il tempo per salutare Jean e George e scusarsi per aver fatto servire le loro birre a un’altra coppia. «Troverete tutta la birra che vorrete laggiù» disse, sventolando vagamente una mano, mentre con l’altra girava le manopole del suo apparec-chio. «Mettetevi a vostro agio, vi prego. Dovete conoscere quasi tutti, qui… Maia vi presenterà agli altri. Siete stati gentili a venire.» «Molto gentile tu a invitarci» disse Jean, senza troppa convinzione. George era già partito per il banco dei rinfreschi, e lei lo seguì subito, scambiando ogni tanto un saluto con qualche persona che conosceva. Tre quarti dei presenti le erano sconosciuti, come di norma a tutte le feste di Rupert. «Facciamo un piccolo giro di esplorazione» disse a George, dopo che ebbero bevuto e salutato con cenni della mano tutti gli invitati di loro conoscenza. «Voglio dare un’occhiata alla villa.» Dopo un’occhiata furtiva a Maia Boyce, George la seguì. Negli occhi aveva una espressione trasognata che a Jean non piaceva nemmeno un po’. Un bel fastidio che gli uomini fossero tendenzialmente poligami! D’altra parte, se non lo fossero stati… Sì, era meglio così, forse. George ritornò rapidamente alla normalità mentre ispezionavano le meraviglie della nuova dimora di Rupert. La casa sembrava molto grande per due persone, ma la vastità era giustificata dai frequenti sovraccarichi che avrebbe dovuto sopportare. Si componeva del pianterreno e del primo piano, questo molto più largo e sporgente in modo da fornire l’ombra necessaria intorno al pianterreno. Il grado di meccanizzazione era notevole; la cucina ricordava molto da vicino la cabina di comando di un aereo di linea. «Povera Ruby!» disse Jean. «Chi sa quanto le sarebbe piaciuta questa villa!» «Da quel che ho saputo» rispose George, che non aveva mai avuto molta simpatia per la ex signora Boyce «la povera Ruby vive in stato di felicità perfetta col suo amico australiano.» La cosa era talmente risaputa, che Jean non trovò niente da ribattere e cambiò argomento. «È una gran bella donna, no?» George stava in guardia per non cadere in trappola. «Oh, direi di sì» rispose in tono indifferente. «Sempre per chi, naturalmente, preferisca le brune.» «Preferenza che tu non hai, vero?» disse Jean, soave. «Non essere gelosa, cara, ti prego» rise George, accarezzandole i capelli color platino. «Andiamo a dare un’occhiata alla biblioteca. Dove credi che sia? A pianterreno o al primo?» «Dev’essere al primo piano: non. c’è più posto quaggiù. E poi s’intona alla disposizione generale della villa. Salotti, sale da pranzo, camere da letto si trovano a pianterreno. Mentre di sopra ci sono i reparti svaghi e sport diversi. Però mi sembra pazzesco una piscina al primo piano.» «Eppure una ragione deve esserci» disse George aprendo una porta a caso. «Rupert deve essere stato consigliato molto bene, quando ha fatto costruire questa villa. Non avrebbe potuto fare tutto di testa sua.» «Credo che tu abbia ragione. Diversamente, ora vedremmo delle camere senza porte e scale che non portano in nessun posto. A dirti la verità, avrei paura a mettere piede in una casa che Rupert avesse disegnato interamente da sé.» «Eccoci arrivati» disse George, con l’orgoglio di un ufficiale di rotta dopo un atterraggio di fortuna. «La favolosa collezione Boyle nella sua nuova sede. Sarei curioso di sapere quanti di questi libri Rupert ha letto veramente.» La biblioteca occupava l’intera lunghezza della casa, ma era divisa in una mezza dozzina di salette dai grandi scaffali messi trasversalmente. Quegli scaffali dovevano contenere, se George ricordava bene, quindicimila volumi: quasi tutto ciò che d’importante era stato pubblicato sui nebulosi argomenti della magia, delle ricerche metapsichiche, della divinazione, della telepatia, oltre che sulla serie completa di quei fenomeni elusivi raccolti alla rinfusa nella categoria della parafisica. Mania molto strana, quella della metapsichica, nell’èra della logica. Presumibilmente Rupert se l’era scelta come forma di evasione. George percepì l’odore nell’attimo in cui mise piede in biblioteca. Un odore non molto forte, ma penetrante, e non tanto sgradevole quanto sfuggente a ogni analisi. Anche Jean l’aveva sentito e corrugò la fronte nello sforzo di identificarlo. Acido acetico, pensò George, ecco l’odore che più gli si avvicina, ma c’è anche un altro elemento, si direbbe… La biblioteca terminava in una nicchia, dove c’era appena lo spazio per un tavolino, due poltrone e un paio di sgabelli imbottiti. Presumibilmente quello era il rifugio di Rupert. Ma anche adesso c’era gente nella nicchia. Qualcuno che leggeva in una luce eccezionalmente bassa. Jean soffocò un’esclamazione e afferrò George per un braccio. Una reazione giustificabile: un conto era vedere un’immagine teletrasmessa e un altro trovarsi di fronte alla realtà. Anche George, che difficilmente si stupiva, questa volta non riuscì a restare impassibile. «Spero di non avervi disturbato…» disse educatamente. «Non avevamo la più pallida idea che ci fosse qualcuno. Rupert non ci aveva detto…» Il Superno abbassò il libro, li guardò attentamente, poi riprese a leggere. Non c’era niente di scortese in quel comportamento, dato che il Superno poteva leggere, conversare e probabilmente fare parecchie altre cose contemporaneamente. Tuttavia, agli occhi di un essere umano era un atteggiamento da schizofrenico. «Mi chiamo Rashaverak» disse il Superno, cortesemente. «Temo di non apparirvi troppo socievole, ma è molto difficile sottrarsi al fascino della biblioteca di Rupert.» Jean riuscì a soffocare una risatina nervosa. Aveva notato che l’inatteso compagno leggeva alla media di circa una pagina ogni due secondi. Non aveva il minimo dubbio che il Superno assimilasse compiutamente ogni parola, e si chiese se potesse leggere un libro con ogni occhio. Senza contare, naturalmente, continuò a pensare con una punta di malizia, che potrebbe anche imparare il metodo braille e così leggere anche con le dita, come i ciechi… L’immagine che ne risultò era troppo comica per non dare luogo a inconvenienti, per cui Jean cercò di evitare il guaio gettandosi a capofitto nella conversazione. Dopo tutto, non era una cosa di tutti i giorni poter scambiare due chiacchiere con uno dei padroni della Terra. George la lasciò chiacchierare, dopo le debite presentazioni, augurandosi che sua moglie non si lasciasse sfuggire qualche osservazione poco opportuna. Come Jean, era la prima volta che vedeva un Superno in carne ed ossa. Sebbene essi si mescolassero ufficialmente con funzionari governativi, scienziati e altri, non aveva mai sentito dire che qualcuno avesse partecipato a una festa privata. Si poteva forse dedurre che quella festa non era così privata come poteva sembrare. E il fatto che Rupert possedesse un apparecchio solitamente riservato ai Superni era un altro indizio, e George cominciò a domandarsi «Che Cosa Esattamente Ci Fosse Di Nuovo». Si riservò di chiederlo a Rupert, non appena avesse potuto prenderlo in disparte. Dato che le poltrone erano troppo piccole per lui, Rashaverak si era seduto sul pavimento e sembrava perfettamente a suo agio. La sua testa sì trovava così a soli due metri dal pavimento e George ebbe la stupenda occasione di studiare biologia extraterrestre. Purtroppo, dato che conosceva ben poco anche di biologia terrestre, non poté imparare molto di più di ciò che già sapeva. Soltanto quell’odore acidulo ma tutt’altro che sgradevole, gli riusciva nuovo. Si domandò quale odore avessero gli umani per i Superni e sperò per il meglio. Non c’era niente di realmente antropomorfico in Rashaverak. Però George si rese conto che, visti in distanza, da selvaggi ignoranti, atterriti, i Su-perni avevano potuto benissimo essere scambiati per uomini alati, dando così origine al ritratto convenzionale del Diavolo. Ma, a una distanza ravvicinata come quella, gran parte dell’illusione scompariva. Le ali di Rashaverak erano ripiegate in modo che George non poteva vederle bene, ma la coda, che pareva un tubo di gomma corazzato, gli stava avvoltolata ordinatamente sotto il corpo. Il famoso ciuffo sulla punta non era tanto un ferro di lancia, quanto un largo e piatto rombo. Suo scopo, come si riteneva generalmente, era di dare maggiore stabilità al volo, come le penne caudali d’un uccello. Da pochi dati e supposizioni del genere, gli scienziati erano giunti alla conclusione che i Superni provenissero da un pianeta caratterizzato da bassa gravità e atmosfera densissima. La voce di Rupert rimbombò a un tratto da un altoparlante nascosto. «Jean! George! Dove diavolo vi siete cacciati? Scendete. Gli altri cominciano a mormorare!» «Sarà meglio che scenda anch’io» disse Rashaverak, riponendo il volume in uno scaffale. Lo fece con estrema facilità, senza muoversi dal pavimento, e George notò per la prima volta che l’essere aveva due pollici, opponibili, con cinque dita fra loro. «Non vorrei studiare aritmetica secondo un sistema basato sul quattordici» pensò George. Rashaverak in piedi offriva uno spettacolo imponente, e quando il Superno dovette chinarsi per non battere la testa contro il soffitto, fu alquanto evidente che se pure erano desiderosi di mescolarsi agli uomini, gli Eccelsi avevano molte difficoltà di ordine pratico da superare. Parecchi altri aerei di invitati erano giunti in quella mezz’ora, e la sala, ora, rigurgitava. L’arrivo di Rashaverak complicò la situazione, perché tutti quelli che si trovavano nelle sale attigue accorsero per vederlo da vicino. Rupert era ovviamente compiaciuto della sensazione prodotta dal suo ospite eccezionale. Quanto a Jean e George, passarono completamente inosservati, soprattutto perché si trovavano dietro il Superno. «Vieni qua, Rashy» urlò Rupert. «Voglio farti conoscere un po’ di amici. Siedi su questo divano, così la smetterai di raschiarmi il soffitto.» Rashaverak, la coda buttata su una spalla, si mosse attraverso la sala come un rompighiaccio che tenti la via della banchisa. Quando si sedette accanto a Rupert, la sala parve ridiventare più vasta, e George emise un sospiro di sollievo. «Mi viene un attacco di claustrofobia, ogni volta che lo vedo in piedi. Chissà come avrà fatto Rupert ad accaparrarselo… la festa si annuncia interessante, una volta tanto.» «Hai sentito come Rupert lo tratta confidenzialmente, e in pubblico, per giunta? Ma il Superno non ha avuto l’aria di offendersi. È tutto molto strano.» «Io invece scommetto che il Superno se l’è avuta a male. Il guaio di Rupert è la sua mania di esibizionismo e la sua mancanza di tatto. E questo mi fa venire in mente alcune delle domande che gli hai rivolto!» «Per esempio?» «Per esempio: «Da quanto tempo siete qui fra noi?», «Andate d’accordo col Supercontrollore Karellen?», «Vi trovate bene sulla Terra?». Ti assicuro, tesoro, non si parla ai Superni con quel tono!» «Non vedo perché. È ora che qualcuno cominci!» Prima che la discussione degenerasse, furono avvicinati dagli Shoenberger e, rapidissima, avvenne la scissione dell’atomo: le due donne se ne andarono in una direzione per parlare con comodo della signora Boyce, gli uomini in un’altra per fare esattamente la stessa cosa, ma da un diverso punto di vista. «Secondo me» disse George, invidioso «è una donna troppo superiore a Rupert. Un’unione così non può durare. Lei si stancherà molto presto di lui.» Pensiero che parve sollevarlo straordinariamente. «Non t’illudere! Oltre a essere quella splendida donna che è, Maia è anche molto a modo. Era tempo che qualcuno s’incaricasse di far mettere la testa a posto a Rupert, e Maia è proprio la donna che ci voleva.» Rupert e Maia erano seduti accanto a Rashaverak, a ricevere gli ospiti. Di rado le feste di Rupert avevano un punto focale. Di solito si formavano una mezza dozzina di gruppi autonomi intenti a conversazioni loro proprie. Questa volta, però, tutti gli ospiti gravitavano attorno a un preciso centro d’attrazione. George si rammaricò per Maia: quella sarebbe dovuta essere la sua giornata, ma Rashaverak l’aveva in parte eclissata. «Senti» riprese George, addentando una tartina «sai dirmi come ha fatto Rupert a mettere le mani su di un Super? Non ce ne ha nemmeno parlato, nell’invito.» Benny si mise a ridere. «È un’altra delle sue piccole sorprese. Sarà meglio che tu lo chieda direttamente a lui, come ha fatto. Ma questa non è la prima volta, comunque, che accade una cosa del genere. Karellen, per esempio, ha partecipato a ricevimenti della Casa Bianca e di Buckingham Palace, e…» «Ma è diverso! Rupert è solo un privato cittadino!» «Può darsi che Rashaverak non sia che un Super di basso rango. Ma chiedilo a loro.» «Lo farò» disse George «appena mi sarà possibile prendere Rupert da parte.» «Allora dovrai aspettare un pezzo.» Benny aveva ragione, ma la festa si andava riscaldando, e non fu molto difficile avere pazienza. La paralisi generale provocata dalla comparsa di Rashaverak si era infine dissolta. C’era ancora un gruppetto di persone intorno al Superno, ma altrove si stava verificando la solita frammentazione, e tutti si comportavano normalmente. Senza voltare la testa, George poteva vedere un famoso produttore cinematografico, un poeta di un certo interesse, un matematico, due attori, un fisico nucleare, il direttore di un giardino zoologico, il direttore di un settimanale, un professore di statistica del Consiglio Bancario Mondiale, un virtuoso del violino, un archeologo e un astrofisico. Non c’erano altri esponenti della professione di George, scenografo della TV, cosa che non gli dispiacque, dato che non aveva voglia di parlare di lavoro. Finalmente poté cogliere di sorpresa Rupert in cucina mentre sperimentava nuove misture. Era un peccato strapparlo al suo paradiso per riportarlo bruscamente sulla Terra, ma quando era necessario, George sapeva essere spietato. «Senti, Rupert» cominciò, sedendosi sull’angolo del tavolo «mi pare che tu ci debba qualche spiegazione.» «Mm» fece Rupert, assaporando il gusto della miscela. «Forse un po’ troppo gin, mi pare…» «Non scantonare e non fare finta di non essere più in condizioni di capire, perché so benissimo che non sei ancora ubriaco. Allora, da dove salta fuori il tuo amico Superno e che cosa ci fa qui?» «Ma come, non te l’ho detto?» disse Rupert. «Credevo di avere spiegato tutto. Si vede che non c’eri quando… Ma già, eri in biblioteca.» Si mise a ridacchiare in un modo che a George parve offensivo. «È proprio la biblioteca che ha fatto capitare qui Rashy.» «Incredibile!» «Perché?» George tacque un momento rendendosi conto che a quel riguardo ci voleva un po’ di tatto: Rupert andava molto orgoglioso della sua raccolta. «Be’, quando si pensa a tutto quello che i Superni possono insegnare in campo scientifico, ci si stupisce un po’ che s’interessino ai fenomeni psichici, parafisici, metapsichici e a tutto questo genere di sciocchezze, no?» «Sciocchezze o no» rispose Rupert «si interessano alla psicologia umana, e io ho alcuni volumi che possono insegnare loro parecchie cose. Proprio poco tempo prima che io mi trasferissi qui, un vice Sotto Super o un vice Super-Sottocontrollore si è messo in contatto con me per chiedermi in prestito i miei cinquanta volumi più rari. Pare che uno dei bibliotecari della biblioteca del British Museum gli avesse fatto il mio nome. Naturalmente, puoi immaginare cosa gli ho risposto.» «No, non lo immagino.» «Gli ho detto con tutta la cortesia possibile che mi ci erano voluti vent’anni per raccogliere la mia biblioteca. Felicissimo che volessero consultare i miei volumi, ma dovevano venire qui se volevano leggerli. Allora ecco comparire Rashy, che da quel momento procede alla media di venti volumi al giorno. Non so che cosa pagherei per sapere a che gli serve tutto quello che legge.» George ci pensò sopra, alla fine si strinse nelle spalle, deluso. «Francamente» disse «la mia stima per i Superni scende di parecchi gradi. Credevo che avessero di meglio da fare.» «Sei il solito incorreggibile materialista! Non credo che Jean concordi con le tue idee. Ma anche dal tuo tanto pratico punto di vista, la cosa è sensata. Sono convinto che ti metteresti a studiare le superstizioni di ogni razza primitiva con la quale dovessi avere a che fare, non è così?» «Direi di sì» rispose George, non del tutto convinto. Il tavolo non era un sedile comodo, e lui si alzò. Rupert aveva finito ora di rimescolare le sue misture e si accingeva con aria soddisfatta a servirle ai suoi ospiti. «Ehi!» protestò George. «Prima di sparire devi rispondere a un’altra domanda. Come hai fatto ad avere quella specie di telecamera rice-trasmittente con cui hai cercato di spaventarci?» «S’è trattato di mercanteggiare un po’, ecco tutto. Avevo fatto notare che sarebbe stato utile quell’aggeggio per un lavoro come il mio, e Rashy ha avanzato la proposta a chi di dovere.» «Perdona la mia ottusità, ma qual è il tuo nuovo lavoro? Immagino che abbia a che fare più o meno con gli animali.» «Esattamente. Io sono un superveterinario. La mia condotta ricopre circa diecimila chilometri quadrati di giungla, e siccome i miei pazienti non vogliono venire da me, sono io che devo andare a scovarli.» «Un lavoro sfibrante, no?» «Naturalmente, non conviene preoccuparsi della minutaglia. Ma soltanto di leoni, elefanti, rinoceronti, e così via. Tutte le mattine metto i controlli per una quota di cento metri, mi siedo davanti allo schermo e me ne vado a esplorare i dintorni; appena trovo qualche creatura bisognosa di me, salto sull’aereo e mi auguro che il mio stile di buon samaritano abbia i suoi risultati. Alle volte, si hanno delle sorprese non molto piacevoli. Leoni e simili sono facili a curarsi; ma cercare di pungere un rinoceronte dall’alto con una freccia anestetica è un’impresa titanica.» «Rupert!» chiamò qualcuno dalla sala accanto. «Dio, guarda che cosa mi hai combinato! Mi hai fatto dimenticare i miei ospiti. Là, guarda, prendi quel vassoio. Quelli sono i bicchieri col vermut… non voglio confonderli con gli altri.» Fu poco prima del tramonto che George riuscì a svignarsela verso la terrazza sul tetto. Per molte buone ragioni, aveva una lieve emicrania, per cui non gli era parso vero sottrarsi al baccano e alla confusione che regnavano da basso. Jean, ballerina infinitamente migliore di lui, aveva ancora l’aria di divertirsi enormemente e non era voluta uscire. George, che grazie all’alcol ingerito si sentiva eroticamente sentimentale, c’era rimasto male e aveva deciso di smaltire il malumore in pace, sotto le stelle. Si giungeva alla terrazza sul tetto mediante la scala mobile fino al primo piano e poi arrampicandosi sulla scala a chiocciola che girava intorno alla tubatura dell’impianto per l’aria condizionata, uscendo infine per una porta. L’aereo di Rupert era parcheggiato a un capo della terrazza: la zona centrale era tenuta a giardino, un giardino che dava già a vedere di essere incolto, mentre il resto non era che una piattaforma-osservatorio con alcune sedie a sdraio. George si lasciò cadere su una delle sedie e si guardò intorno con occhio da sovrano. Si sentiva il dominatore di tutto ciò su cui posava lo sguardo. Le stelle che cominciarono a spuntare da tutte le parti con tanta fretta appena il sole fu del tutto scomparso gli erano completamente sconosciute. Cercò la Croce del Sud, ma non la trovò. Sebbene sapesse ben poco di astronomia e fosse in grado di identificare solo tre o quattro costellazioni, pure quell’assenza di configurazioni familiari gli riuscì stranamente penosa. Come erano penose le urla che provenivano dalla giungla, che ad un tratto sembrava essersi fatta vicina in modo preoccupante. «Basta con quest’aria fresca» pensò George. «Ora me ne torno da basso, prima che un vampiro, o qualche altra creatura altrettanto gradevole, venga a indagare su questa terrazza.» Stava già per dirigersi verso la porta, quando un altro invitato ne emerse. Si era fatto così buio, ora, che George non poté vedere chi fosse. «Ehi, laggiù!» gridò. «Ne avete avuto abbastanza anche voi?» Il suo invisibile compagno si mise a ridere. «Rupert sta proiettando i suoi film. Io li ho già visti tutti» disse. «Una sigaretta?» offrì George. «Grazie.» Alla fiamma dell’accendino — George aveva la mania di quelle anticaglie — riconobbe finalmente l’altro invitato, un giovane negro, straordinariamente bello. Gliene avevano detto il nome, ma George si era fatto un dovere di dimenticarlo subito, assieme a quelli degli altri venti sconosciuti che gli erano stati presentati. Tuttavia, c’era qualcosa di familiare nella fisionomia del giovane, e George a un tratto intuì la verità. «Non credo che ci siamo conosciuti molto a fondo» disse «ma non siete forse il nuovo cognato di Rupert?» «Esattamente: sono Jan Rodricks. Tutti dicono che Maia e io ci assomigliamo moltissimo.» George si domandò se non dovesse esprimere a Jan la sua commiserazione per quel parente di recentissima acquisizione, ma pensò che fosse meglio lasciare il poveretto libero di scoprirlo da sé. Del resto, poteva anche darsi che questa volta Rupert si decidesse a mettere la testa a posto. «Sono George Greggson» disse. «È la prima volta che venite a una delle famose feste di Rupert?» «Sì. C’è da conoscere un mucchio di gente nuova in occasioni come questa.» «E non soltanto di questa Terra» soggiunse George. «È stata la prima occasione che mi si è presentata di conoscere personalmente un Superno.» L’altro esitò un attimo prima di rispondere, e George ebbe la sensazione di aver colpito un punto debole. Ma la risposta non rivelò niente. «Nemmeno io ne avevo mai visto uno prima d’ora, tranne che alla TV.» A questo punto la conversazione cominciò a languire, e dopo un istante George si accorse che Jan aveva voglia di starsene solo. L’aria si faceva fredda, comunque, per cui, scusatosi, scese a raggiungere gli altri. La giungla taceva, ora. Nell’appoggiarsi con le spalle alla presa d’aria dell’impianto di condizionamento, Jan non udì altro suono se non il ronzio lieve della casa che respirava con i suoi polmoni meccanici. Il giovane si sentiva malinconico e solo, ed era così che voleva essere. Ma si sentiva anche profondamente deluso e scoraggiato, che era proprio ciò che non voleva assolutamente essere. 7 Nessuna Utopia potrà mai dare soddisfazione a tutti, in ogni momento. A misura che le condizioni materiali migliorano, gli uomini elevano in proporzione le loro aspirazioni e non si accontentano più di poteri e beni che un tempo sarebbero parsi loro al di là di ogni speranza più audace. E anche quando il mondo esterno ha concesso tutto quello che può, rimangono pur sempre le esigenze della mente e i desideri nostalgici del cuore. Jan Rodricks, sebbene apprezzasse molto di rado la sua fortuna, in un’epoca precedente sarebbe stato ancora più scontento e insoddisfatto. Un secolo prima il colore della sua pelle sarebbe stato un ostacolo tremendo. Oggi, non aveva più nessun significato. Passato anche il senso di superiorità, venuto come reazione, che i negri avevano trovato nel ventunesimo secolo. La parola «negro» non era più tabù tra persone educate e veniva usata da chiunque senza il minimo impaccio. Non aveva più contenuto emotivo di quanto non ne potessero avere etichette da repubblicano o metodista, conservatore o liberale. Il padre di Jan era stato un affascinante scozzese, irrequieto e irresponsabile, che si era fatto un certo nome come guaritore di professione. La sua morte, alla precoce età di quarantacinque anni, era stata provocata dall’eccessivo consumo del più celebrato prodotto del suo Paese. La signora Rodricks, ancora viva e vegeta, insegnava teoria delle probabilità all’Università di Edimburgo. Era una caratteristica dell’estrema mobilità del genere umano ai primordi del XXI secolo, che la signora Rodricks, la quale era d’un nero ebano, fosse nata in Scozia, mentre il suo biondo marito senza patria fissa aveva passato quasi tutta la sua vita ad Haiti. Maia e Jan non avevano mai avuto una casa loro, ma avevano sempre fatto la spola tra le famiglie paterna e materna come due traghetti. La cosa era stata molto divertente, ma non aveva certo contributo a temperare l’instabilità di carattere che entrambi avevano ereditato dal padre. A ventisette anni, Jan aveva ancora parecchi anni di vita universitaria davanti a sé prima di poter pensare seriamente alla carriera. Aveva superato i primi esami senza sforzo, seguendo un programma di studi che un secolo prima sarebbe parso molto strano. Si interessava di fisica, matematica, filosofia e musica, ed era un pianista di molto talento. In un triennio contava di laurearsi in fisica applicata, con l’astronomia come disciplina sussidiaria. Tutto ciò avrebbe sottinteso un’intensa attività, ma Jan se la prendeva alla leggera. Studiava presso l’istituto più splendidamente situato nel mondo: l’Università di Città del Capo, ai piedi della Table Mountain. Non aveva preoccupazioni materiali, eppure si sentiva scontento, angustiato e non vedeva rimedio alla sua condizione. A peggiorare questo stato di cose, c’era la felicità di Maia, che sottolineava la causa principale della malinconia di Jan. Jan soffriva ancora di quella romantica illusione, causa di tanta infelicità e tanta poesia, secondo cui un uomo non ha che un solo vero amore in vita sua. Molto più tardi di quanto non accadesse alla maggioranza dei giovani, Jan aveva dato il suo cuore per la prima volta a una ragazza nota più per la sua bellezza che per la sua costanza. Rosita Tsien affermava di discendere dalla dinastia Manciù, e non mentiva. Aveva infatti ancora molti sudditi, soprattutto nelle Facoltà di Scienze dell’Università. Jan era caduto prigioniero della delicata bellezza di Rosita, e l’idillio si era protratto abbastanza a lungo da rendere più doloroso il finale. Lui non riusciva a capire che cosa avesse fatto crollare tutto. Naturalmente gli sarebbe passata, come era successo ad altri, ma per il momento Jan trovava insopportabile la vita. L’altra sua causa di rodimento era meno facilmente rimediabile perché connessa al peso che il dominio dei Superni esercitava sulle sue aspirazioni. Jan era un romantico non soltanto col cuore ma anche col cervello. Come molti altri giovani, dopo la conquista dello spazio, aveva lasciato che sogni e fantasia vagassero per gli inesplorati oceani del cosmo. Un secolo prima, l’uomo aveva messo il piede sulla scala che avrebbe potuto portarlo alle stelle. Ma proprio in quell’istante, la porta dei pianeti gli era stata chiusa in faccia. I Superni avevano imposto pochi divieti assoluti su alcuni aspetti delle attività umane (quella bellica era stata forse la più importante), ma le ricerche nel campo dell’astronautica erano virtualmente cessate. La sfida portata dalla scienza dei Superni era troppo grande. Almeno per il momento, l’uomo, scoraggiato, si era rivolto ad altre attività. Non valeva la pena di evolvere razzi sempre più perfetti, quando i Superni avevano mezzi di propulsione infinitamente superiori, basati su principi di cui gli uomini non avevano mai nemmeno avuto sentore. Poche centinaia di uomini avevano visitato la Luna, allo scopo di stabilirvi un osservatorio astronomico. Avevano viaggiato come passeggeri in una piccola astronave concessa dai Superni, e con motori a razzo. Era ovvio che si poteva apprendere ben poco dallo studio di un aeromobile così antiquato. L’uomo, quindi, era ancora prigioniero del suo pianeta. Un pianeta molto più giusto e saggio, ma anche molto più piccolo di quel che non fosse stato un secolo prima. Abolendo guerra, miseria e malattie, i Superni avevano anche abolito l’avventura. La luna nascente cominciava a tingere il cielo orientale d’un pallido riflesso latteo. Lassù, come Jean sapeva bene, c’era la base principale dei Superni, in fondo all’immenso cratere di Plutone. Quantunque le astronavi addette ai rifornimenti dovessero essere andate e venute da quella base da oltre settant’anni, soltanto durante la vita di Jean ogni dissimulazione era stata abbandonata e i Superni avevano effettuato arrivi e partenze in piena vista. Nel telescopio con cinque metri d’apertura, le ombre delle grandi astronavi si potevano vedere nitidamente quando, al mattino e alla sera, il sole le allungava per miglia e miglia sulle piane lunari. Siccome tutto quello che i Superni facevano era di immenso interesse per il genere umano, era cominciata una costante vigilanza dei loro arrivi e delle loro partenze, e così si poteva avere un idea delle loro operazioni anche se non dei motivi che le determinavano. Una di quelle grandi ombre era svanita qualche ora prima. Ciò significava, come Jan sapeva, che in un punto dello spazio presso la Luna un’astronave dei Superni attendeva immobile, eseguendo gli ordini che le erano stati impartiti, prima d’iniziare il viaggio per la lontana patria sconosciuta. Lui non aveva mai visto una di quelle astronavi che ripartivano per il loro pianeta lanciarsi verso le stelle. Se le condizioni di visibilità erano buone, lo spettacolo era visibile da una buona metà del globo, ma Jan non aveva mai avuto fortuna. Non si poteva mai prevedere quando sarebbe avvenuto il decollo, e del resto i Superni non davano nessuna pubblicità all’evento. Jan decise di aspettare altri dieci minuti, prima di scendere a raggiungere gli altri. E quella che cos’era? Niente altro che una meteora, che scivolava mollemente giù dalla costellazione di Eridano. Jan si rilassò, scoprì che la sigaretta si era spenta e ne accese un’altra. Ne aveva fumato circa metà, quando, a mezzo milione di chilometri di distanza, si accese l’iperpropulsione. Dal cuore della radiosità lunare, una minuscola favilla cominciò a salire verso lo zenit. Dapprima il suo movimento fu quasi impercettibile, ma guadagnava velocità a ogni secondo. Salendo, accrebbe il suo fulgore, poi, bruscamente, si affievolì fino a scomparire. Un istante dopo la favilla ricomparve, aumentando in fulgore e velocità. Ora vivida ora fioca secondo un suo ritmo, ascendeva sempre più rapidamente nel cielo, tracciando una fluttuante linea di luce in mezzo alle stelle. Anche ignorandone la vera distanza, l’impressione di velocità che se ne aveva era da mozzare il fiato; sapendo poi che l’astronave in partenza si trovava nello spazio al di là della Luna, la mente era colta da vertigine all’idea delle velocità e delle forze che quel moto implicava. Quello che ora vedeva, si disse Jan, era un sottoprodotto senza importanza di quelle forze. L’astronave stessa era invisibile, già molto più innanzi della luce ascendente. Come un aviogetto si lascia dietro una scia di vapori, così la nave dei Superni lanciata verso l’infinito aveva la sua scia particolare. La teoria generalmente accettata, e non sembrava esservi dubbio della sua fondatezza, era che l’immensa accelerazione dell’iperpropulsione causasse una distorsione locale nello spazio. Ciò che Jan stava ora vedendo era solo la luce delle stelle lontanissime, raccolta e messa a fuoco della sua retina appena le condizioni favorevoli lungo la scia dell’astronave lo permettevano. Era una prova visibile della relatività: la deviazione dei raggi luminosi nelle vicinanze di un colossale campo gravitazionale. La luce fantomatica cominciava ad affievolirsi. Adesso non era più che una minuscola striatura vaga, che puntava verso il cuore della costellazione della Carena, come Jan sapeva che avrebbe fatto. Il mondo dei Superni sembrava essere in quella direzione, approssimativamente, ma poteva gravitare intorno a una qualunque delle migliaia di stelle che si addensavano in quel settore dello spazio. Non c’era modo di stabilire la sua distanza dal Sistema Solare. Non c’era più niente, ora. Sebbene l’astronave avesse appena cominciato il viaggio, l’occhio umano non poteva vedere più niente. Ma nella memoria di Jan il ricordo di quell’itinerario luminoso continuava ad ardere, fascio di luce lanciato da un faro che non si sarebbe mai affievolito finché lui avesse avuto in sé ambizioni e desideri. La festa era finita. Quasi tutti gli invitati erano ripartiti a bordo dei loro aerei e sciamavano ora verso i quattro angoli della Terra, tranne qualche eccezione. Una era Norman Dodsworth, il poeta, che si era ubriacato vergognosamente, ma aveva almeno avuto il buon gusto di svenire prima di dare spettacolo. Con scarsa delicatezza, l’avevano sdraiato all’aperto con la speranza che qualche iena gli desse un rude risveglio. Stando così le cose, era come se Dodsworth non ci fosse affatto. Tra gli altri rimasti erano George e Jean. Idea che non era stata affatto di George, il quale aveva una gran voglia di tornarsene a casa. Era ovvio che Rupert aveva in serbo qualche sorpresa, probabilmente d’accordo con Jean. George si rassegnò di malumore a qualunque sciocchezza stessero per propinargli. «Ho tentato di tutto prima di fermarmi su questa» disse Rupert orgogliosamente. «Il problema fondamentale è quello di ridurre l’attrito allo scopo di ottenere la massima libertà di movimento. L’antiquata apparecchiatura a base di tavolo lucido e levigato col suo bravo bicchiere sopra non è tanto male, ma è in uso da secoli, ormai, e io ero sicuro che la scienza moderna poteva trovare di meglio. Ed ecco il risultato. Avvicinate pure le sedie… davvero non te la senti di unirti a noi, Rashy?» Il Superno parve esitare per una frazione di secondo. Quindi scosse la testa. Avevano forse imparato quel gesto sulla Terra? pensò George. «No, grazie» rispose. «Preferisco stare a guardare. Un’altra volta, forse.» «Benissimo… c’è rutto il tempo che vuoi, qualora dovessi cambiare idea più tardi.» «Ah, bene!» pensò George, più nero che mai, guardando l’orologio. Rupert aveva radunato il gruppetto di amici attorno a un tavolo piccolo ma massiccio e perfettamente rotondo. Il piano, di plastica, era un coperchio molto sottile, che egli sollevò per mettere in mostra un mare scintillante di cuscinetti a sfere strettamente connessi. L’orlo lievemente rilevato del tavolo impediva alle sfere di rotolare via, e George non riuscì a capire a che cosa servissero. Le centinaia di punti di luce riflessa formavano un disegno ipnotico, affascinante, sì che George ne ebbe la mente confusa. Mentre gli altri avvicinavano le sedie, Rupert allungò un braccio sotto il tavolo, prese un disco del diametro di dieci centimetri circa e lo appoggiò sulla superficie dei cuscinetti a sfera. «Ecco qua» disse. «Appoggiate la punta delle dita su questo disco e vedrete che si muoverà senza fare resistenza.» George si mise a osservare disco e tavolo con profonda diffidenza. Vide che le lettere dell’alfabeto erano disposte a intervalli regolari, anche se non in base a un preciso ordine di successione, lungo la circonferenza del tavolino, Inoltre c’erano i numeri dall’1 al 9, sparsi alla rinfusa tra le lettere, e due cartoncini con le parole «sì» e «no», l’uno di fronte all’altro, ai margini del tavolino. «A me sembra un gioco di bussolotti» mormorò. «Mi stupisce che ci sia gente che lo prenda sul serio ancora oggi.» Si sentì meglio, dopo essersi alleggerito con questa piccola protesta rivolta tanto a Jean quanto a Rupert. Rupert si atteggiava a uomo di larghe vedute, ma tutt’altro che credulo, con soltanto un distaccato interesse scientifico per fenomeni del genere, Jean, d’altra parte… George, a volte era un po’ preoccupato nei suoi riguardi. Lei sembrava convinta che ci fosse qualcosa di molto vero in quei giochetti di telepatia e di preveggenza. Fu solo dopo avere espresso la sua osservazione che George si accorse che la protesta toccava anche a Rashaverak. Lanciò nervosamente un’occhiata nella sua direzione, ma il Superno non dimostrò nessuna reazione. La qual cosa, com’era naturale, non significava assolutamente nulla. Ognuno aveva preso il suo posto. Nel senso delle lancette dell’orologio, sedevano Rupert, Maia, Jan, Jean, George e Benny Shoenberger. Ruth Shoenberger sedeva discosta, al di fuori del circolo, con in mano un quaderno. Ruth aveva fatto qualche obiezione a partecipare alla seduta, la qual cosa aveva indotto Benny a osservare in tono sarcastico che al mondo c’era ancora gente che prendeva sul serio il Talmud. Comunque, Ruth pareva dispostissima a fungere da segretaria. «Ora» disse Rupert «vi prego di ascoltarmi attentamente. A beneficio degli scettici come George, sarà bene mettere molto in chiaro subito questo: ci sia o non ci sia un elemento soprannaturale in questa faccenda, vi dico che la cosa funziona. Personalmente ritengo che si possa dare una spiegazione di carattere strettamente meccanico. Quando noi poniamo la punta delle dita sul disco, anche se possiamo tentare d’influire sui suoi movimenti, il nostro subcosciente comincia a farci degli scherzi. Ho analizzato moltissime sedute di questo genere e non ho mai trovato risposte che qualcuno del gruppo potesse non sapere o non indovinare… anche se spesso nessuno ne era consapevole. Ad ogni modo, vorrei eseguire l’esperimento in queste circostanze, diremo così, peculiari.» La Circostanza Peculiare se ne stava seduta a osservarli in silenzio, ma indubbiamente non con indifferenza. George si chiese che cosa pensasse esattamente Rashaverak di simili prodezze. Erano forse, le sue, le reazioni di un antropologo che osserva qualche primitivo rito religioso? Tutta la situazione era semplicemente grottesca, e George si sentì ridicolo come non gli era mai capitato di sentirsi in vita sua. Se anche gli altri si sentivano ridicoli, non lo dimostrarono. Solo Jean era accesa in volto, eccitata; ma forse erano state le bevande alcoliche. «Tutto a posto?» disse Rupert. «Bene.» Fece una pausa a effetto, quindi, senza rivolgersi a nessuno in particolare, domandò: «C’è forse qualcuno?» Sotto le dita George sentì il disco vibrare. Non era sorprendente, data la pressione esercitata su di esso dalle sei persone della catena. Quindi il disco cominciò a scivolare lungo due curve, tracciando un piccolo otto, ter-minato il quale rimase immobile nel centro, da dove si era mosso. «C’è qualcuno?» ripeté Rupert. E in un tono di più normale conversazione soggiunse: «Spesso bisogna aspettare da dieci minuti a un quarto d’ora, prima che si cominci. Ma alle volte…» «Ssst!» fece Jean. Il disco aveva ripreso a muoversi e ora stava percorrendo un grande arco oscillando fra i cartellini del «sì» e del «no». A fatica, George represse un sorriso sarcastico. Che cosa avrebbe dimostrato quel disco, pensò, se si fosse fermato davanti al no? Ricordò il vecchio scherzo: «Se ci sei batti un colpo, se non ci sei battine due!». Ma il disco si fermò davanti al «sì», brevemente, poi ritornò al centro della tavola. In un certo senso pareva vivo, ora, vivo e in attesa di una nuova domanda. Nonostante tutto George cominciò a sentirsi impressionato. «Chi sei?» «domandò Rupert. Le lettere finirono compilate nettamente, a una a una, dal disco, senza la minima esitazione. Il piattello rotondo saettava qua e là per il tavolo come una cosa animata, spesso così veloce che George non riusciva a tenerci sopra le dita. Avrebbe potuto giurare che non contribuiva assolutamente al suo movimento; e, guardandosi intorno, rapidamente, non notò niente di sospetto sulla faccia dei suoi amici. Sembravano assorti e in attesa come lui stesso. IOSONOTUTTI, compilò il piattello e tornò al suo punto di equilibrio. «Io sono tutti» ripeté Rupert. «Una risposta tipica. Evasiva e niente stimolante. Probabilmente significa che non c’è altra cosa, qui, all’infuori dell’effetto combinato delle nostre menti.» Tacque per qualche istante, evidentemente per scegliere la domanda successiva. Infine si rivolse all’aria ancora una volta. «Hai un messaggio per qualcuno dei presenti?» «No» rispose prontamente il disco. Rupert si guardò intorno. «Dobbiamo fare noi. A volte comunica di sua iniziativa, ma stavolta dobbiamo rivolgergli domande precise. C’è nessuno che voglia cominciare?» «Pioverà domani?» scherzò George. Immediatamente il piattello cominciò ad andare e venire nello spazio tra il «sì» e il «no». «È una domanda futile» disse Rupert in tono di rimprovero. «C’è sempre la probabilità che piova in qualche zona e ci sia siccità in altre. Non bisogna fare domande che implichino ambiguità di risposta.» George si sentì schiacciato e lasciò a qualche altro la domanda successiva. «Qual è il mio colore preferito?» domandò Maia. BLU, fu la risposta giusta. «Esattissimo!» «Questo non prova niente. Almeno tre persone presenti sanno la risposta» obiettò George. «Qual è il colore preferito di Ruth?» domandò Benny. ROSSO. «È vero, Ruth?» La segretaria alzò lo sguardo dal quaderno dove annotava domande e risposte. «Sì. Ma Benny lo sa, e fa parte della catena.» «Io non lo sapevo affatto» protestò Benny. «Lo sapevi benissimo! Non so più quante volte te l’ho detto.» «Ricordi del subconscio» mormorò Rupert. «Avviene spesso. Ma non possiamo fare qualche domanda un po’ più intelligente, per favore? Ora che la seduta è cominciata così bene, non vorrei vederla finire in niente.» Cosa strana, la stessa banalità del fenomeno cominciava a impressionare George. Era certissimo che la spiegazione non avesse niente a che vedere col mondo soprannaturale. Come aveva detto Rupert, il disco rispondeva semplicemente ai loro inconsci movimenti muscolari. Ma era il fatto in sé che sorprendeva e colpiva: lui non avrebbe mai creduto che si potessero ottenere risposte tanto pronte e precise. Una volta tentò di vedere se potesse influire sul piattello facendogli comporre il suo nome: riuscì a ottenere la G, ma fu tutto: il resto non aveva senso. Era virtualmente impossibile, decise, che una persona sola fosse in grado di tenere il disco sotto controllo a insaputa degli altri. Dopo una trentina di minuti, Ruth aveva scritto oltre una decina di messaggi, alcuni dei quali molto lunghi. Vi figuravano ogni tanto errori di ortografia e anomalie grammaticali, ma in numero ridottissimo. Quale che fosse la spiegazione, George era convinto ora di non contribuire consapevolmente ai risultati. Più volte, mentre una parola era in fase di composizione, aveva creduto di prevedere la lettera successiva e perciò il significato del messaggio. Ma ogni volta il piattello si era poi diretto verso tutt’altra lettera, formando una parola del tutto inattesa. Spesso, infatti, l’in-tero messaggio, dato che non c’era soluzione di continuità tra una parola e l’altra, era totalmente privo di senso fino a quando non era ultimato e Ruth non lo aveva riletto. Quell’esperienza dava a George l’impressione soprannaturale di essere in comunicazione con una mente autonoma, dotata di volontà sua propria. E nello stesso tempo non c’era una prova conclusiva né in un senso né nell’altro. Le risposte erano così banali, così ambigue! Che cosa si poteva tirar fuori per esempio, da: CREDERENELLUOMOLANATURAECONVOI? Pure ogni tanto c’erano indizi di verità profonde, addirittura sconvolgenti: RICORDACHELUOMONONESOLOPRESSOLUOMOESISTEILPAES EDIALTRI. Ma era una cosa naturale, che tutti sapevano: tuttavia non poteva forse il messaggio riferirsi ad altri che non i Superni? George finì per cadere in preda al torpore. Era tempo, si disse assonnato, di riprendere la via del ritorno. Quell’esperimento era senza dubbio tale da rendere perplessi e curiosi di saperne di più, ma non sembrava portarli verso qualcosa di definitivo, e il troppo stroppia anche le cose buone. Guardò di sfuggita i compagni della catena. Benny aveva l’aria di pensarla come lui, Maia e Rupert avevano entrambi gli occhi lievemente vitrei, e Jean, be’, Jean sembrava aver preso fin da principio la cosa troppo sul serio. La sua espressione preoccupò George; pareva quasi che avesse paura a smettere e nello stesso tempo temesse di andare avanti. Restava soltanto Jan. George non era ancora riuscito a capire che cosa pensasse il giovane delle eccentricità del cognato. Jan non aveva fatto domande e non aveva mostrato sorpresa alle risposte date dal piattello. Sembrava studiare i movimenti del disco come se si trattasse semplicemente di un qualunque fenomeno scientifico. Rupert si scosse dallo stato letargico nel quale gli sembrava di essere sprofondato. «Facciamo ancora una domanda» disse «dopo di che potremo dichiarare la giornata conclusa. Voi, Jan, non avete ancora rivolto domande?» Nello stupore generale, Jan non mostrò esitazione alcuna. Era come se il giovane avesse già deciso da tempo di fare la sua domanda e avesse aspettato l’occasione propizia. Lanciò una sola occhiata alla figura immobile di Rashaverak, poi domandò con voce chiara e ferma: «Quale stella è il sole dei Superni?» Rupert soffocò un’esclamazione di sorpresa, Maia e Benny non ebbero reazioni. Jean aveva chiuso gli occhi e sembrava addormentata. Rashaverak si era sporto in avanti così da poter vedere all’interno della catena da sopra le spalle di Rupert. E il disco cominciò a muoversi. Quando finalmente tornò allo stato di riposo, ci fu una breve pausa di silenzio. Quindi Ruth domandò, con voce perplessa: «Che cosa significa NGS 549672?» Ma non ottenne alcuna risposta, perché nello stesso istante George disse ansiosamente: «Chi mi dà una mano per Jean? Temo che sia svenuta.» 8 «Questo Boyce…» disse Karellen. «Ditemi tutto quello che sapete di lui.» Il Supercontrollore non usò esattamente queste parole, e i pensieri sottintesi trascendevano di grati lunga questo significato. Un ascoltatore umano avrebbe al massimo udito un fiotto di suoni rapidamente modulati, non molto diversi da quelli di una trasmissione in alfabeto Morse fatta a grande velocità. Sebbene fossero stati registrati molti saggi dell’idioma Superno, la loro estrema complessità sfocava qualunque analisi. La velocità di trasmissione garantiva l’impossibilità, da parte di qualunque interprete che avesse anche assimilato il linguaggio, di stare alla pari con i Superni in una loro normale conversazione. Il Supercontrollore della Terra, voltando le spalle a Rashaverak, guardava la fossa multicolore del Gran Canyon. A dieci chilometri circa, ma appena velati dalla distanza, i bastioni a terrazze erano esposti alla piena forza del sole. A centinaia di metri sotto le pendici ombreggiate sul cui ciglio Karellen stava ritto, un trenino a cremagliera scendeva lentamente a spirale nell’abisso della valle. Era strano, pensò Karellen, che tanti esseri umani cogliessero ancora qualunque occasione per comportarsi secondo usanze primitive. Potevano giungere sul fondo del canyon in una frazione del tempo impiegato dal trenino, se avessero voluto, e con maggiori comodità. Invece preferivano essere sballottati su binari che probabilmente erano pericolosi e pericolanti proprio come sembravano. Karellen fece un gesto impercettibile con la mano. Il grande panorama sbiadì alla vista, lasciando soltanto una vacuità piena d’ombre che si per-deva in prospettiva. Le realtà del suo ufficio e della sua posizione gravarono ancora una volta sulle spalle del Supercontrollore. «Rupert Boyce è un tipo alquanto curioso» rispose Rashaverak. «Professionalmente, è il responsabile sanitario della Principale Riserva Africana. È molto capace e ama il suo lavoro. Poiché deve sorvegliare parecchie migliaia di chilometri quadrati di territorio, ha uno dei quindici televisori panoramici che abbiamo distribuito a titolo di prestito, con le solite garanzie, naturalmente. È, tra parentesi, il solo apparecchio che abbia complete possibilità di proiezione. Boyce ha dimostrato di saperne fare buon uso, per cui gliele abbiamo lasciate tutte.» «Qual è stata la tesi da lui sostenuta?» «Voleva apparire a numerosi animali selvaggi in modo che si abituassero a vederlo e quindi non lo assalissero quando si fosse presentato materialmente a loro. La sua teoria si è dimostrata valida con quegli animali che si regolano più sulla vista che sull’odorato, sebbene io tema che prima o poi finisca sotto le zanne di qualche fiera. Ma c’è un’altra ragione per cui gli abbiamo concesso l’apparecchio.» «L’apparecchio lo rendeva più prezioso come collaboratore?» «Precisamente. Ho letto ora circa la metà della sua preziosa biblioteca. È stata una prova ben dura!» «Non ne dubito» rispose Karellen, asciutto. «Avete scoperto qualcosa che ne valesse la pena, fra tutto quel ciarpame?» «Sì. Undici casi di parziale sfondamento e ventisette probabili. Il materiale è tuttavia così tenue che non lo si può usare a fini d’esemplificazione. E l’evidenza dei fatti è sempre frammista inestricabilmente al misticismo, caratteristica inalienabile della mente umana.» «E l’atteggiamento di Boyce qual è?» «Si finge alquanto scettico, ma è chiaro che non avrebbe consumato tanto tempo ed energie in questo campo senza una profonda fede subconscia. L’ho sfidato e ha finito per ammettere che dovevo avere ragione. Il suo grande desiderio è scoprire una prova irrefutabile. Ecco perché fa quegli esperimenti, anche se ama far credere che sono specie di giochi.» «Siete certo che non sospetti che il vostro interesse non è soltanto accademico?» «Certissimo. Sotto molti aspetti, Boyce è notevolmente ottuso e semplice. Cosa che rende i suoi tentativi di ricerche, proprio in questo campo, quasi patetici. Non vedo la necessità di ricorrere a qualche azione speciale nei suoi riguardi.» «Già. E in merito alla giovane donna che è svenuta?» «Questo è il particolare più interessante di tutta la faccenda. Jean Morrei rappresentava quasi certamente il mezzo attraverso cui è pervenuta la comunicazione. Ma la donna ha ventisei anni: troppi per costituire un contatto diretto, a giudicare da tutte le nostre esperienze precedenti. Deve essere quindi qualcun altro strettamente connesso a lei. La conclusione è ovvia. Non possiamo avere più molti anni da attendere. Dobbiamo trasferirla alla Categoria Porpora: può anche darsi che sia il più importante essere vivente.» «D’accordo. Provvederò io. E il giovane che ha fatto la domanda? Si tratta di un caso di pura curiosità, senza fondamento, o aveva qualche altro motivo?» «È stato il caso a portarlo a quella riunione: la sorella aveva appena sposato Rupert Boyce. Non conosceva nessuno degli altri invitati. Sono sicuro che la domanda non era premeditata, ma piuttosto ispirata da condizioni insolite, oltre che dalla mia presenza. Date le premesse, non c’è da stupirsi del suo comportamento. Il suo grande sogno è l’astronautica: è segretario del Gruppo degli Astronauti all’Università del Capo e mira a fare di questo campo di studi lo scopo della sua vita.» «La sua carriera dovrebbe essere interessante. In attesa, quale sarà, secondo voi, la sua linea di condotta e in che modo dovremo occuparci di lui?» «Indubbiamente tenterà di controllare la notizia della nostra provenienza, appena potrà. Ma non c’è modo per lui di dimostrare la verità della risposta avuta: non solo, ma per l’origine stessa dell’informazione è molto difficile che si azzardi a renderla pubblica. Ma se anche lo facesse, in che cosa potrebbe, sia pur lontanamente, danneggiarci?» «Farò vagliare con la massima cura i due elementi della situazione» rispose Karellen. «Sebbene l’assoluto divieto di rivelare la nostra base faccia parte delle direttive impartiteci, non vedo in che modo la notizia possa essere usata contro di noi.» «È quello che penso anch’io. Tutto quello che Rodricks riuscirà a trovare sarà qualche informazione molto dubbia e di nessun valore pratico.» «Così parrebbe, ma non lasciamoci dominare da un senso di eccessiva sicurezza. Gli esseri umani sono straordinariamente ingegnosi e spesso molto tenaci. Non è mai prudente sottovalutarli, e sarà interessante seguire la carriera di Rodricks. Dovrò riflettere ancora su questo argomento.» Rupert Boyce non giunse mai realmente in fondo alla cosa. Dopo che i suoi ospiti se ne furono andati, con un tono un po’ più dimesso e riservato del solito Rupert aveva spinto il tavolo nel suo angolo, con aria cogitabonda. La lieve nebbiolina alcolica inibì un’analisi approfondita di quanto era accaduto, e del resto gli stessi fatti già cominciavano ad apparirgli vaghi e sfumati. Aveva l’impressione generica che fosse accaduto qualcosa di molto importante ma indefinibile, e si chiese se fosse il caso di parlarne a Rashaverak. Ma poi si disse che sarebbe stata un’indiscrezione. Dopo tutto, era stato Jan a provocare quella situazione imbarazzante, e Rupert si rese conto di nutrire un vago risentimento verso il cognato. Ma era poi colpa di Jan? Anzi, era colpa di qualcuno? Con un certo senso di disagio, Rupert si ricordò che era stato il suo esperimento, quello a cui i suoi amici avevano partecipato. E decise, con buon esito, di non pensare più all’intera faccenda. Avrebbe forse potuto fare qualcosa se si fosse ritrovata l’ultima pagina del quaderno di Ruth, ma, nella confusione, era scomparsa. Jan finse sempre di non saperne niente e ben difficilmente si sarebbe potuto accusare Rashaverak. Così, nessuno poté mai ricordare esattamente la parola che era stata compitata, se non che sembrava totalmente priva di senso… Chi era rimasto più profondamente impressionato fu George Greggson, che non avrebbe più dimenticato il senso di terrore provato quando Jean gli si era afflosciata tra le braccia, trasformandosi da una piacevole compagna a un essere bisognoso di tenerezza e di affetto. Le donne sono sempre svenute, da tempi immemorabili, e non tutte le volte sul serio, ottenendo sempre dagli uomini l’effetto sperato. Ma lo svenimento di Jean, del tutto genuino, non avrebbe ottenuto di più se fosse stato calcolato perché, come lui si rese conto più tardi, George in quel momento prese la decisione più importante della sua vita. Jean era la donna che realmente contava per lui, nonostante le sue idee strampalate e i suoi ancora più strampalati amici. Non che George avesse intenzione di abbandonare del tutto Naomi, o Jiy, o Elsa, o… come diamine si chiamava quella?… Denise, ma era venuto il tempo di un rapporto più stabile e serio. Non dubitava che Jean fosse d’accordo con lui, dato che i suoi sentimenti erano stati manifesti fin dal primo giorno. Ma dietro quella decisione c’era un altro fattore di cui per il momento George non era conscio. L’esperienza di quella sera aveva indebolito il suo disprezzo e il suo scetticismo per le cose che interessavano particolarmente Jean. Non l’avrebbe mai ammesso, ma era così, e questo aveva rimosso l’ultima barriera che si levava tra loro. Guardò Jean che giaceva pallida, ma composta e serena, nella poltroncina inclinabile dell’aereo. Le tenebre si addensavano sotto di loro, le stelle sopra. George non aveva la più pallida idea di dove si trovassero e non gliene importava niente. Era affare del pilota automatico che li stava pilotando verso casa e li avrebbe fatti atterrare, come annunciava l’indicatore sul cruscotto, esattamente entro cinquantasei minuti. Jean gli sorrise in risposta e dolcemente sciolse la mano dalla stretta delle dita di George. «Solo per ristabilire la circolazione» disse, in tono di preghiera, soffregandosi le dita. «Vorrei che tu mi credessi, ora che ti assicuro di stare benissimo.» «Allora, che cosa pensi che sia successo? Ricorderai, immagino, qualche cosa, non è vero?» «No… c’è una lacuna nella mia memoria, il vuoto assoluto. Ho sentito Jan fare la domanda… e poi vi ho visto tutti che, agitatissimi, eravate chini su di me. Sono certa che deve essere stata una specie di trance. Del resto…» Tacque per un istante e decise di non dire a George che quel genere di cose le era capitato altre volte. Sapeva come la pensava lui in merito e non intendeva sconvolgerlo maggiormente, o addirittura spaventarlo. «Del resto… che cosa?» domandò George. «Oh, niente. Sarei curiosa di sapere che cosa quel Superno ha pensato di tutta la faccenda. Forse gli abbiamo dato più di quanto si aspettasse.» Jean fu scossa da un brivido e le si velarono gli occhi. «Ho paura dei Superni, George. Non voglio dire che siano malvagi, né altre sciocchezze del genere. Sono certa che le loro intenzioni sono eccellenti e che fanno ciò che ritengono ci giovi di più, ma vorrei sapere quali sono i loro piani.» George si mosse a disagio. «È quello che l’umanità si chiede da quando sono comparsi sul nostro pianeta» rispose. «Ce lo diranno appena saremo abbastanza maturi per saperlo, e, a dirti la verità, io non sono molto curioso. Senza contare che ho cose più importanti a cui pensare.» Si girò verso Jean e le afferrò le mani. «Che ne diresti di andare domani all’anagrafe, a firmare un contratto per… diciamo cinque anni?» Jean lo guardò negli occhi e decise che, tutto sommato, non le dispia-ceva quel che sentiva quando guardava George. «Facciamo dieci» rispose. Jan tirava per le lunghe. Non c’era fretta, e poi voleva pensare. Era quasi come se temesse che approfondendo le cose la fantastica speranza si dissolvesse. Finché non aveva nessuna certezza, poteva continuare a sognare. Inoltre, prima di passare all’azione, doveva consultare la bibliotecaria dell’Osservatorio. La donna conosceva benissimo tanto lui quanto il suo campo di interessi, e la richiesta l’avrebbe sicuramente sconcertata. Forse non era una cosa importante, ma Jan preferiva non correre rischi. Fra una settimana avrebbe avuto un’occasione migliore. Sapeva di esagerare con le precauzioni, ma l’eccessiva cautela aggiungeva un gusto goliardico all’avventura. Inoltre Jan temeva il ridicolo più di qualsiasi cosa che i Superni potessero fare per ostacolarlo, e se si stava imbarcando su una nave che faceva acqua era meglio che nessuno lo sapesse. Per andare a Londra aveva un ottimo motivo, e gli accordi erano già stati presi da alcune settimane. Per quanto fosse troppo giovane e troppo poco qualificato per la carica di delegato, era però uno dei tre studenti che erano riusciti a farsi assegnare al gruppo ufficiale partecipante alla riunione dell’International Astronomical Union. In periodo di vacanze sarebbe stato un vero peccato perdere quell’occasione, dato che non vedeva Londra dall’infanzia. Anche se si trattava di argomenti che poteva capire, i rapporti che sarebbero stati presentati alla I.A.U. non gli interessavano gran che, ma, come ogni altro addetto a un congresso scientifico, sarebbe andato alle conferenze che si annunciavano più interessanti e avrebbe trascorso il resto del tempo a conversare con colleghi entusiasti o semplicemente curiosi. Londra era cambiata enormemente in quegli ultimi cinquant’anni. Ora la sua popolazione non superava i due milioni, ma le macchine superavano questa cifra di almeno cento volte. Non era più un grande porto, perché, come in ogni Paese autosufficiente, l’intera fisionomia del commercio internazionale era profondamente mutata. C’erano ancora prodotti che alcuni Paesi facevano meglio degli altri, ma raggiungevano la loro destinazione direttamente per via aerea. Altre cose, però, non erano mutate. La città era ancora un centro amministrativo, artistico e culturale. In questi campi, nessuna delle metropoli continentali poteva rivaleggiare con Londra, nemmeno Parigi, nonostante che molti protestassero affermando il contrario. Un londinese di un secolo prima sarebbe stato capace di ritrovare la sua strada, almeno nel centro, senza difficoltà. C’erano nuovi ponti sul Tamigi, ma al posto dei vecchi. Le grandi, squallide stazioni della metropolitana erano scomparse, o per lo meno sopravvivevano soltanto nei sobborghi. Ma le Camere del Parlamento erano immutate: il monocolo Nelson fissava ancora Whitehall, la cupola di St. Paul si levava ancora su Ludgate Hill, anche se adesso si vedevano edifici più alti sfidare il suo primato. E le guardie montavano ancora di sentinella davanti a Buckingham Palace. Fu solo nel secondo giorno del Congresso che a Jan si offrì l’occasione che cercava. Sembrava che non ci fosse nessuno in sede, in quel momento. Jan, stringendo nella mano il suo cartoncino di socio, come un passaporto, nell’eventualità di qualche controllo inatteso, non ebbe difficoltà a trovare la biblioteca. Gli ci volle quasi un’ora per trovare quel che cercava e imparare a servirsi dei grandi cataloghi stellari con i loro milioni di voci. Tremava lievemente quando cominciò a intravedere la fine delle sue ricerche e fu lieto che non ci fosse nessuno ad assistere al suo nervosismo. Rimise a posto il catalogo e rimase per molto tempo seduto immobile, fissando, senza vederla, la parete coperta dagli scaffali zeppi di volumi. Infine si allontanò a passo lento per i corridoi silenziosi e giù per le scale. Aveva evitato l’ascensore, perché voleva essere libero e non rinchiuso in uno spazio angusto. Aveva la mente ancora in pieno caos quando attraversò la strada per raggiungere il parapetto del Lungotamigi, dove lasciò che il suo sguardo seguisse il fiume nel suo lento corso verso il mare. Passeggiando lentamente passò in rassegna i dati di fatto, uno dopo l’altro. Dato N. 1: nessuno, alla festa di Rupert, poteva sapere che lui avrebbe fatto quella particolare domanda. Non lo aveva saputo nemmeno lui fino al momento di formularla, come spontanea reazione alle circostanze. Pertanto, nessuno avrebbe potuto preparare una risposta o averla già avuta nella mente. Dato N. 2: NGS 549672 probabilmente non significava niente per nessuno che non fosse astronomo. Sebbene il grande National Geographic Survey fosse stato completato da mezzo secolo, la sua esistenza era nota soltanto a qualche migliaio di specialisti. E prendendovi un numero qualunque a casaccio, nessuno avrebbe potuto dire in quale punto del cielo si trovasse quella stella particolare. Ma, e questo era il dato N. 3, che solo lui ora aveva scoperto, la piccola stella insignificante nota come NGS 549672 si trovava precisamente là dove era giusto che fosse. Stava nel cuore della costellazione della Carena, a un’estremità di quella striscia di fuoco che lo stesso Jan aveva visto, poche notti prima, staccarsi dal Sistema Solare per lanciarsi sopra gli abissi dello spazio. Era assurdo che si trattasse di una combinazione. NGS 549672 «doveva» essere il sistema stellare dove si trovava il mondo dei Superni. Tuttavia, accettare il fatto significava per Jan violare tutti i principi tanto amati del metodo scientifico. Ebbene, peggio per quei principi. In quell’occasione doveva accettare il fatto che, in certo qual modo, il fantastico esperimento di Rupert aveva attinto a una fonte di conoscenza, ignota fino a quel momento. Rashaverak? Sembrava la spiegazione più probabile. Il Superno non aveva partecipato alla catena, ma questo non aveva molta importanza. Tuttavia Jan non era attratto dal meccanismo della parafisica: era la sola utilizzazione dei risultati che lo interessava. Si sapeva ben poco della stella NGS 549672: non era mai stato notato niente che la distinguesse da milioni di altre stelle. Ma il Catalogo ne dava la grandezza in luminosità, le coordinate, il tipo spettrale. Jan avrebbe dovuto ora fare qualche ricerca, insieme con un po’ di calcoli abbastanza semplici. Solo allora avrebbe saputo, almeno approssimativamente, quanto il mondo dei Superni distasse dalla Terra. Un lento sorriso si allargò sulla faccia di Jan, quando il giovane si staccò dal Tamigi per tornare verso la bianca facciata abbagliante del Centro Scientifico. Sapere è potere, e lui era il solo uomo sulla Terra a sapere da dove provenivano i Superni. Come avrebbe utilizzato quella conoscenza, non poteva immaginare: ma l’avrebbe custodita al sicuro nella sua mente, aspettando il momento del destino. 9 La razza umana continuava a crogiolarsi nel lungo e limpido pomeriggio estivo della pace e della prosperità. Sarebbe mai più venuto l’inverno? Era impensabile. L’età della ragione, precocemente annunciata dai capi mati del metodo scientifico. Ebbene, e mezzo prima, era arrivata. E stavolta non c’era possibilità di errore. Non che mancassero gli inconvenienti, d’accordo, ma li si accettava di buon grado: bisognava essere davvero molto vecchi per avvertire la noia dei notiziari giornalistici che le telescriventi riproducevano in ogni casa. Del tutto scomparse le crisi politiche ed economiche che un tempo originavano titoli e lettere cubitali. Non esistevano più delitti misteriosi che lasciassero perplessa la polizia e destassero in milioni di petti un’indignazione morale che spesso non era che invidia mascherata. I delitti che ancora si commettevano non erano mai misteriosi: bastava semplicemente girare un disco, o una manopola, e si poteva vedere il delitto riprodotto nei minimi particolari. Che esistessero strumenti simili aveva provocato in un primo momento un’ondata di panico fra la gente rispettosa della legge, e timorata. Era una cosa che i Superni, i quali si erano impadroniti quasi completamente di tutti i ghiribizzi della psicologia umana, non avevano previsto. Fu necessario far capire chiaramente che a nessun occhio indiscreto era dato spiare le azioni private dei suoi simili e che i pochissimi strumenti nelle mani degli uomini sarebbero stati sotto la più stretta sorveglianza. Il Proiettore di Rupert Boyce, per esempio, non poteva funzionare oltre i limiti della Riserva, ragione per cui Rupert e Maia erano le uniche persone entro il suo raggio d’azione. Perfino i rarissimi crimini di eccezionale gravità non avevano particolare rilievo nei notiziari, dato che la gente veramente educata non desidera, dopo tutto, leggere gli errori sociali commessi dagli altri. La settimana media lavorativa era ridotta ormai a venti ore, ma queste venti ore non rappresentavano certo una sinecura. Ben poco lavoro restava di natura automatica, monotona. Il cervello umano era troppo prezioso per sprecarlo in lavori che qualche migliaio di transistor, poche cellule fotoelettriche e un metro cubo di circuiti stampati potevano fornire facilmente. C’erano fabbriche che lavoravano per settimane di seguito, ininterrottamente, senza essere visitate da un solo essere umano. Gli uomini erano necessari per eliminare inconvenienti, decidere, progettare nuove iniziative. Gli automi facevano il resto. I più possedevano due case, nelle parti del mondo più lontane l’una dall’altra. Ora che le regioni polari erano state aperte alla colonizzazione umana, una notevole minoranza degli esseri umani oscillava dall’Artico all’Antartico con un moto pendolare che aveva una frequenza di sei mesi in media, poiché era invalsa la moda di andare alla ricerca della lunga estate polare senza notte. Altri erano andati a stabilirsi nei deserti, sulle montagne o addirittura sul fondo del mare. Non, c’era più un luogo sulla faccia del pianeta dove scienza descrittiva e scienza applicata non potessero dare una casa confortevole a chi ne sentisse profondamente la necessità. Alcune tra le più eccentriche dimore erano divenute la fonte delle poche notizie sensazionali che si divulgassero. Anche nella società più perfettamente organizzata sarebbero sempre avvenuti incidenti. Forse era buon segno che la gente ritenesse che valeva la pena di rischiare, e spesso di rompersi l’osso del collo, per amore di una villa accogliente sotto la sommità dell’Everest, o dominante il panorama attraverso gli spruzzi iridescenti delle Cascate Victoria. Di conseguenza, c’era sempre qualcuno che veniva tratto in salvo da qualcun altro. Era diventato una specie di gioco, quasi uno sport universale. La gente poteva indulgere in queste manie, perché disponeva di tempo e di denaro. L’abolizione delle forze armate aveva quasi immediatamente raddoppiato le ricchezze, e la produzione accresciuta aveva fatto il resto. Di conseguenza, era difficile paragonare il tenore di vita dell’uomo del ventunesimo secolo con quello di ogni altro secolo precedente. Tutto era così a buon mercato che i generi di prima necessità erano gratuiti, elargiti, come un servizio pubblico, dalla comunità, così come lo erano stati un tempo strade, acqua, illuminazione stradale e fognature. Un individuo poteva viaggiare per le destinazioni più disperate, mangiare qualunque cibo di cui gli saltasse il ticchio, senza mai dover sborsare denaro. Si era guadagnato questo diritto nella sua qualità di membro produttivo della comunità. C’erano, si capisce, dei fannulloni, ma il numero di persone che abbiano sufficiente forza di volontà d’indulgere in una vita di ozio assoluto è assai più piccolo di quanto si crederebbe. Mantenere quei parassiti rappresentava un fardello molto meno grave del raccogliere gli eserciti di esattori, commessi, impiegati di banca, agenti di cambio e così via, tutta gente la cui funzione principale consisteva, considerando la cosa da un punto di vista globale, nel trasportare voci ed elenchi di voci da un registro all’altro. Quasi un quarto della totale attività del genere umano, si calcolava, era assorbito da sport e svaghi di varia natura, che andavano da quelli più sedentari come gli scacchi a occupazioni mortali come il volo-sci per attraversare le valli da un crinale all’altro. Un imprevedibile risultato di tutto ciò fu l’estinzione degli sportivi professionisti. C’erano troppi dilettanti abilissimi, e le mutate condizioni economiche avevano reso antiquato il sistema di un tempo. Subito dopo lo sport, lo svago rappresentava il massimo sforzo di produzione industriale. Per oltre un secolo c’era stata gente che aveva creduto Hollywood il centro del mondo; potevano forse fare la stessa affermazione anche adesso, e a maggior ragione, ma non andava errato chi avesse detto che in massima parte la produzione cinematografica del 2055 sarebbe parsa puro intellettualismo incomprensibile ai pubblici del 1955. indubbiamente, si era raggiunto qualche progresso: il botteghino non era più il signore assoluto. Fra tutte le distrazioni e le deviazioni di un pianeta che ormai aveva tutta l’aria di diventare in breve un immenso giardino di ricreazione, si trovavano persone che avevano ancora il tempo di ripetere l’antichissima domanda, ch’era sempre rimasta senza risposta: «Dove andremo a finire?». 10 Jan si appoggiò all’elefante e posò le mani sull’epidermide del bestione, ruvida come la scorza di un albero. Guardò le zanne enormi e la proboscide ricurva colpito dall’abilità dell’imbalsamatore che aveva saputo cogliere quel momento di sfida, o di saluto. Si chiese quali altre creature avrebbero visto un giorno, su qualche mondo sconosciuto, quell’esemplare terrestre. «Quanti animali hai mandato ai Superni?» chiese a Rupert. «Una cinquantina almeno, ma questo è il più grosso. Magnifico, vero? Gli altri animali erano quasi tutti piccoli: farfalle, serpenti, scimmie, e così via. L’anno scorso però mi sono procurato un ippopotamo.» Jan increspò le labbra in una smorfia. «È un pensiero morboso» disse «ma immagino che debbano ormai avere un magnifico esemplare impaglialo dell’Homo Sapiens nella loro raccolta. Chi avrà avuto tanto onore?» «Deve essere proprio così» rispose Rupert in tono indifferente. «Non credo che sia stato loro difficile mettersi d’accordo con qualche ospedale.» «Che cosa succederebbe» disse Jan, pensoso «se qualcuno sì offrisse di andare come campione vivo? Purché sia garantito il ritorno, naturalmente.» Rupert rise, comprensivo. «È per caso un’offerta da parte tua? Vuoi che ne parli a Rashaverak?» Per un istante, Jan rifletté sull’idea prendendola sul serio. Infine scosse la testa. «No… no. Pensavo a voce alta, ecco tutto. Mi respingerebbero senza esitare. A proposito, hai occasione di vedere spesso Rashaverak in questo periodo?» «Mi ha telefonato cinque o sei settimane fa. Aveva trovato un libro a cui davo disperatamente la caccia da non so quanto tempo. È stato molto gentile.» Jan fece lentamente il giro del pachiderma imbalsamato, ammirando ancora una volta l’arte che lo aveva immobilizzato per sempre in quell’istante di massimo vigore. «Hai mai scoperto che cosa cercasse nella tua biblioteca?» domandò. «Voglio dire che sembra molto difficile conciliare la scienza dei Superni con la passione per l’occultismo.» Rupert guardò Jan sospettosamente, senza capire se il cognato si prendesse gioco, o no, della sua innocente mania. «Le sue spiegazioni mi sono sempre parse convincenti. Come antropologo era attratto da ogni aspetto della nostra cultura. Non dimenticare che hanno moltissimo tempo a disposizione. Possono penetrare in ogni particolarità molto più di quanto potrà mai fare uno studioso della nostra specie. Leggersi tutta la mia biblioteca probabilmente non è stato che un lievissimo sforzo da parte di Rashaverak.» Poteva anche darsi che fosse la risposta giusta, ma Jan non si sentì convinto. C’erano state occasioni in cui aveva pensato di confidare il suo segreto a Rupert, ma la sua naturale prudenza lo aveva sempre trattenuto. Quando avesse rivisto il suo amico Superno, Rupert avrebbe probabilmente rivelato qualche cosa: la tentazione sarebbe stata troppo forte. «Incidentalmente» disse Rupert, cambiando discorso a un tratto «se credi che il mio sia stato un lavoro di caccia grossa, dovresti vedere l’incarico che ha avuto Sullivan. Si è impegnato a consegnare le due più grosse bestie del pianeta: un capodoglio e una piovra gigante. Appariranno allacciati tra loro in una lotta mortale. Che quadro!» Per un istante Jan non parlò. L’idea che gli era esplosa nella mente era troppo fantastica per essere presa sul serio. Eppure, proprio per la sua temerarietà poteva avere buon esito… «Che ti è successo?» domandò Rupert, ansiosamente. «Il caldo comincia forse a darti noia?» Jan si scosse per ritornare alla realtà. «No, no, sto benissimo» rispose. «Pensavo soltanto come faranno i Superni a trasportare un pacchetto come questo!» «Oh» fece Rupert «una di quelle loro astronavi da carico scenderà fin sulla superficie del pianeta, aprirà uno dei portelli a piano inclinato e lo stiverà nel suo ventre in due minuti.» «Era appunto quello che stavo pensando» osservò Jan. Sarebbe anche potuta essere la cabina di un’astronave, ma non lo era. Le pareti erano ricoperte di manometri e strumenti vari: non c’erano finestrini o sportelli, ma solo un vasto schermo davanti al pilota. Il batiscafo poteva trasportare sei passeggeri, ma per il momento Jan era il solo. Il pilota stava ora scendendo dalle alte regioni dell’oceano verso l’ancora inesplorata vastità del South Pacific Basin, seguendo, come Jan sapeva, l’invisibile reticolato di onde sonore prodotto da un radiofaro lungo i fondali dell’oceano. Navigavano ancora molto al di sopra del fondo, simile a nuvole sopra la superficie della Terra. C’era ben poco da vedere: i riflettori del mezzo sottomarino frugavano le acque invano. Lo sconvolgimento creato dai getti di propulsione aveva probabilmente fatto fuggire le creature di minor mole: se qualche creatura fosse andata a vedere la causa di tanta commozione equorea, sarebbe stata di tali dimensioni da non conoscere il significato di paura. «È tempo di fare il punto» disse il pilota. Girò una serie di manopole, e il batiscafo giunse dolcemente in stato di quiete, rallentando a mano a mano che la forza d’inerzia perdeva potenza. Lo scafo, immobile ora, si librava nell’elemento liquido come un pallone galleggiante nell’atmosfera. Ci volle poco per controllare la loro posizione sul reticolo del sonar. Quand’ebbe finito di esaminare gli strumenti, il pilota disse: «Prima di riaccendere i motori, cerchiamo di sentire qualche cosa.» L’altoparlante inondò la cabina silenziosa con un lungo mormorio sommesso, continuo; non c’era suono dominante che Jan potesse distinguere dal resto. Era uno sfondo compatto di suoni, nel quale si fondevano tutti i rumori del mondo subacqueo. Jan stava ascoltando le voci di miriadi di creature marine che parlavano tutte insieme. Era come stare al centro di una foresta brulicante di vita, salvo che nella foresta uno avrebbe distinto alcune voci singole, mentre lì non un solo filo della trama sonora poteva essere dipanato e identificato. Ed era un insieme di suoni così nuovo e bizzarro e diverso da tutto quello che aveva sempre udito in vita sua, che Jan si sentì rabbrividire. Eppure anche quelle regioni facevano parte del suo mondo. L’urlo s’incise sullo sfondo di vibrazioni sonore come un fulmine che fori un ammasso di nubi tempestose. Poi si affievolì rapidamente, scemando in un lamento spettrale, un ululato che alla fine si spense in un sospiro, per essere rilanciato dopo un istante da una fonte più lontana. Poi fu un’esplosione subitanea di urli, un coro di strilli, che raggiunse in breve l’apice tan-to da costringere il pilota ad allungare in fretta la mano verso il comando del volume. «In nome di Dio, che cosa era quel frastuono?» ansimò Jan. «Impressionante, non è vero? È un gruppo di balene a dieci chilometri di distanza. Sapevo che si trovavano da queste parti e ho pensato che vi sarebbe piaciuto sentirle.» «E io ho sempre creduto che il mare fosse silenzioso! Ma perché fanno tanto baccano?» «Comunicano tra loro, suppongo. Sullivan potrebbe dirvelo. Pare che il professore possa perfino identificare delle balene singole, per quanto io stenti a crederlo. Oh, ecco qua! Abbiamo visite!» Un pesce dalle fauci spalancate, incredibilmente larghe, era comparso sullo schermo. Sembrava molto grosso, ma poiché Jan non conosceva la scala della ripresa televisiva, era difficile stabilirlo. Da un punto immediatamente sotto le branchie, gli penzolava un lungo tentacolo, che terminava in un organo non identificabile, a forma di campana. «Lo stiamo vedendo con gli infrarossi» disse il pilota. «Guardiamo ora l’immagine al naturale.» Il pesce svanì, e rimase solo l’organo pendulo, dal quale emanava una vivida fosforescenza. Poi, appena per un istante, la sagoma della strana creatura tremolò visibile, mentre una linea d’impulsi luminosi saettava lungo il suo corpo. «È un pesce-rospo, detto anche rana-pescatrice, perché il peduncolo gli serve come esca per attirare le prede. Fantastico, vero? Quello che non riesco a capire è perché la sua esca naturale non attiri pesci abbastanza grossi da divorarlo. Purtroppo non possiamo stare fermi qui tutto il giorno. Guardate come scappa, ora che metto in azione i getti.» La cabina riprese a vibrare mentre lo scafo si muoveva in avanti. Il grande pesce luminoso a un tratto accese tutte le sue luci, come in un frenetico segnale di allarme, e filò via, meteora lanciata nelle tenebre degli abissi. Il sottomarino continuò a scivolare dolcemente come su un piano inclinato, scendendo sempre più negli abissi; ora sullo schermo cominciava a delinearsi un quadro completo, ma dato l’angolo d’inclinazione Jan ci mise un po’ di tempo per interpretare quello che vedeva. Infine capì: si stavano avvicinando a una montagna sommersa che emergeva come una escrescenza dalla pianura invisibile. «Siamo quasi arrivati» disse al pilota. «Fra un minuto potrete vedere il laboratorio.» Passarono lentamente sopra uno sperone roccioso che sporgeva dalla base della montagna, e la piana sottostante cominciò a delinearsi. Jan immaginò che lo scafo si trovasse ora solo a qualche centinaio di metri al disopra del fondo oceanico. Quindi vide, a un chilometro circa davanti a sé, un ammasso di sfere sorrette da tripodi e collegate tra loro da tubi. L’insieme ricordava in modo straordinario i serbatoi di uno stabilimento chimico, e infatti era stato concepito in base agli stessi principi fondamentali. La sola differenza stava nel fatto che le pressioni a cui bisognava opporre resistenza erano esterne, non si originavano internamente. Il pilota abbassò una piccola leva e si sporse verso il quadro comandi. «SDue chiama il Laboratorio. Sto per agganciarmi.» La risposta venne immediatamente: «Laboratorio a SDue. Sta bene. Procedete pure e prendete contatto.» Le ricurve pareti metalliche cominciarono a riempire lo schermo. In pochi minuti il batiscafo era premuto fortemente contro la parete della base, le due aperture a tenuta stagna si erano congiunte e si spingevano attraverso lo scafo fino al fondo di una gigantesca spirale. Venne poi il segnale di «equilibrio di pressione» dalla camera di equilibrio, e l’accesso al Laboratorio Abissale Numero Uno fu aperto. Jan trovò il professor Sullivan in una stanzetta non molto linda e ordinata che sembrava combinare in sé le caratteristiche di ufficio, laboratorio scientifico e officina. Il professore stava studiando al microscopio l’interno di quella che sembrava una piccola bomba. Presumibilmente si trattava di una capsula a pressione contenente alcuni campioni di vita abissale che continuavano a nuotare allegramente nelle normali condizioni di varie tonnellate di pressione per centimetro quadrato. «Ebbene» disse Sullivan, strappandosi a malincuore dall’oculare «come sta il nostro Rupert? E in che posso esservi utile?» «Rupert sta bene, grazie» rispose Jan. «Vi manda i suoi saluti e dice che gli piacerebbe tanto venirvi a trovare quaggiù, se non fosse per la sua claustrofobia.» «Certo che si sentirebbe piuttosto a disagio qua sotto, con cinque chilometri d’acqua sopra la testa. A voi non fa effetto questa idea?» Jan alzò le spalle. «Non più che se mi trovassi a bordo di uno stratoplano. Se dovesse succedere qualche cosa, il risultato sarebbe lo stesso tanto nell’uno quanto nell’altro caso.» «E in questo modo infatti che si deve ragionare, ma è sbalorditivo quanto pochi siano quelli che ragionano così.» Gingillandosi con i controlli del suo microscopio, Sullivan lanciò a Jan un’occhiata indagatrice. «Sarà per me un vero piacere farvi visitare l’impianto» riprese «ma devo confessare che sono rimasto alquanto sorpreso, quando Rupert mi ha comunicato la vostra richiesta. Non ho capito perché mai uno di voi astrofili, maniaci del vuoto assoluto degli spazi cosmici, si sentisse attratto dal nostro lavoro, Non avete scelto per caso la direzione opposta?» Sbottò in una risatina divertita. «Personalmente, non ho capito la vostra fretta di venire qui. Passeranno secoli, prima che la totalità delle estensioni subacquee sia stata minutamente riprodotta, registrata, catalogata.» Jan respirò profondamente. Era contento che fosse stato proprio Sullivan ad affrontare l’argomento, perché ciò gli facilitava il compito. Nonostante il tono ironico dell’ittiologo, i due uomini avevano molte cose in comune. Non doveva essere tanto difficile gettare un ponte fra loro, cattivarsi la comprensione e l’aiuto cordiale di Sullivan. «Professor Sullivan» cominciò Jan «se, appassionato dell’oceano come siete, vi vedeste negare dai Superni il permesso addirittura di avvicinarlo, come vi comportereste?» «Proverei un sentimento di profonda contrarietà, non c’è dubbio.» «Ne sono certo. E supponendo che un giorno vi si offrisse l’occasione di raggiungere il vostro scopo, a loro insaputa, che cosa fareste? Cogliereste quell’occasione?» «Naturalmente» rispose pronto Sullivan, senza esitare. «Prima si agisce e poi si discute.» «Ci sei questa volta» pensò Jan. «Non puoi tirarti più indietro ora, a meno che tu abbia paura dei Superni. E non mi sembri il tipo d’aver paura.» Protendendosi verso lo scienziato si dispose a esporre il suo progetto. Il professor Sullivan non era stupito, e prima ancora che Jan cominciasse a parlarne, le sue labbra si atteggiarono in un sorriso ironico. «Dunque, si tratta di questo, eh?» disse lentamente. «Molto, molto interessante. Ora raccontatemi tutto e ditemi perché dovrei aiutarvi.» 11 In un’epoca precedente, ricorrere al professor Sullivan sarebbe stato un lusso costoso. Le sue operazioni costavano quanto una piccola guerra, e in realtà lui era assai simile a un generale impegnato in una eterna battaglia contro un inesauribile nemico. Il nemico del professor Sullivan era il mare, e il mare combatteva con le sue armi: il freddo, il buio, e soprattutto la pressione. Dal canto suo Sullivan teneva impegnato l’avversario con l’intelligenza e l’abilità tecnica. E aveva vinto molte battaglie. Ma il mare era paziente e non aveva fretta. Un giorno, Sullivan lo sapeva, lui avrebbe fatto un errore. Comunque aveva la consolazione di sapere che non sarebbe mai annegato, perché la fine sarebbe avvenuta in altro modo, e più rapido. Quando Jan gli aveva fatto la sua richiesta, lui non si era impegnato in alcun modo, pur sapendo quale sarebbe stata, alla fine, la sua risposta. Quella era l’occasione per un esperimento tra i più interessanti, ma, come accade spesso nel campo delle ricerche scientifiche, Sullivan aveva in corso altri progetti che richiedevano parecchio tempo per essere portati a termine. Il professor Sullivan era intelligente e capace, ma ripensando alla sua carriera si rendeva conto perfettamente di non avere affatto raggiunto quella fama che rende immortale il nome di uno scienziato. E nella inattesa e allettante richiesta di Jan c’erano realmente tutti gli elementi per passare alla storia. Non avrebbe mai ammesso, però, di nutrire questa ambizione, e per rendergli giustizia bisogna dire che avrebbe aiutato Jan anche se il suo concorso nell’attuazione del progetto fosse dovuto restare segreto. In quanto a Jan, ora stava ripensandoci. Nell’entusiasmo della sua scoperta si era spinto troppo oltre. Aveva fatto le sue indagini, ma non era mai, prima, passato a una vera azione diretta per realizzare il suo sogno. Adesso, però, se il professore Sullivan accettava di aiutarlo, lui non aveva più modo di ritirarsi e doveva affrontare il futuro che lui stesso si era scelto con tutto quello che una simile scelta comportava. Fu il pensiero che, se avesse rifiutato quella incredibile occasione, non se lo sarebbe mai perdonato, a farlo decidere. Rinunciare avrebbe significato passare il resto della vita a rammaricarsi e rimproverarsi, e questo era inaccettabile. La risposta di Sullivan gli arrivò qualche ora più tardi. Ormai il dado era tratto. Senza fretta, perché di tempo ne aveva più che a sufficienza, cominciò a sistemare le sue faccende. «Carissima Maia» (la lettera cominciava così) «senza dubbio questa sarà per te, a dir poco, una sorpresa. Quando riceverai questa lettera io non sarò più sulla Terra. Con ciò non voglio dire di essere partito per la Luna, come già molti altri hanno fatto. No, sarò in viaggio per il mondo dei Superni. Sarò il primo essere umano che abbia lasciato il Sistema Solare. «Affido questa lettera all’amico che mi aiuta: la conserverà fino a quando non avrà saputo che il mio piano ha avuto buon esito, almeno nella sua prima fase, quando cioè sarà troppo tardi perché i Superni possano intervenire. «Ma innanzi tutto lascia che ti spieghi come sono arrivato a tanto. Tu sai quanto mi sia sempre appassionato all’astronautica, e quale senso di frustrazione io abbia sempre sofferto per il divieto impostoci di tentare il viaggio per gli altri pianeti o di scoprire quale sia la civiltà dei Superni. Se loro non fossero mai intervenuti, noi saremmo potuti giungere ormai su Marte e su Venere. Ammetto che esistevano identiche probabilità che la razza umana si autodistruggesse con bombe al cobalto e altre armi totali che il ventesimo secolo andava elaborando. Ma talvolta penso che mi sarebbe piaciuto che l’uomo avesse avuto l’opportunità di fare da sé. «Può darsi che i Superni abbiano le loro buone ragioni di tenerci chiusi nella ‘nursery’, ragioni probabilmente più che buone, più che ottime; ma anche se le conoscessi, non credo che determinerebbero una differenza nel mio modo di sentire… o di agire. «Tutto cominciò in realtà a quella festa di Rupert. Rammenti quella sciocca seduta che, da lui predisposta, fu troncata dallo svenimento di quella vostra amica (di cui non mi ricordo più il nome)? Io avevo domandato da quale stella provenissero i Superni, e la risposta fu NGS 549672. Quando accertai che quel numero corrispondeva al nome di una stella su di un catalogo stellare, decisi di approfondire la cosa. Scoprii così che la stella si trova nella costellazione della Carena; e uno dei pochissimi fatti che sappiamo dei Superni è che vengono da quella direzione del cielo. «Sappiamo molte cose, oggi, attraverso le nostre continue osservazioni delle loro partenze, sulla velocità delle astronavi dei Superni. Esse lasciano il Sistema Solare con tale tremenda accelerazione da avvicinarsi alla velocità della luce in meno di un’ora. Ciò significa che i Superni devono possedere un sistema propulsivo tale da agire alla pari su ogni atomo delle loro astronavi, così che nessuna cosa a bordo resta stritolata all’istante. Mi domando perché usino accelerazioni così colossali, quando hanno a loro disposizione tutto lo spazio e tutto il tempo che vogliono per accumulare il massimo di velocità. Secondo me, essi possono in un modo o nell’altro sfruttare i campi di forza che circondano le stelle, per cui devono eseguire manovre di partenza e di arrivo nelle immediate vicinanze di un sole. «NGS 549672 si trova a una distanza di 40 anni luce dalla Terra. Le a-stronavi dei Superni raggiungono oltre il 99 per cento della velocità della luce, quindi il viaggio deve durare quarant’anni del nostro tempo. Il nostro tempo: questo è il punto cruciale. «Ora, come può darsi che tu sappia, cose molto strane succedono a chi si approssima alla velocità della luce. Il tempo stesso comincia a fluire secondo un ritmo diverso, a passare cioè più lentamente, tanto che i mesi sulla Terra non sono più che ore sulle astronavi dei Superni. L’effetto è fondamentale: fu scoperto dal grande Einstein più d’un secolo fa. «Ho fatto alcuni calcoli su quello che noi sappiamo della super-propulsione, usando i risultati fermamente stabiliti dalla Teoria della Relatività. Per i passeggeri d’una delle astronavi Superne il viaggio a NGS 549672 non può durare più di due mesi, anche se in base al computo terrestre passano ben quarant’anni. So che questo sembra un paradosso, e ci sia di consolazione il fatto che ha reso perplesse le più grandi menti del mondo fin dal giorno in cui Einstein espose la sua teoria. «Forse, questo esempio ti mostrerà meglio il genere di cose che possono accadere e ti darà un quadro più nitido della situazione. Se i Superni mi rimandassero subito sulla Terra, io tornerei a casa invecchiato di soli quattro mesi. Ma sulla Terra in realtà saranno passati ottant’anni. Così che tu comprendi, Maia, che questo è il mio addio… «Ben pochi vincoli mi legano qui, come sai bene, per cui posso partire con la coscienza tranquilla. Non ho detto niente alla mamma: si lascerebbe andare a qualche crisi di nervi che non potrei sopportare. È meglio così. Tu mi capisci. «A questo punto, puoi essere colta dal dubbio che io sia impazzito, dato che sembra impossibile per chiunque salire a bordo d’una delle astronavi Superne. Ma ho trovato il modo di farlo. Non è una cosa che si verifichi molto spesso e può anche darsi che dopo questa volta non si verifichi più, perché sono certo che Karellen non ripete due volte lo stesso errore. Conosci la leggenda del Cavallo di Troia? Ma c’è nell’Antico Testamento un esempio più calzante…». «Indubbiamente starete più comodo di Giona» disse Sullivan. «Non abbiamo la prova che quel profeta avesse comodità di luce elettrica e impianti igienici. Ma vi occorreranno provviste di scorta, e vedo che non trascurate l’ossigeno. Riuscirete a stivare tutto quello che vi occorrerà per un viaggio di due mesi in uno spazio così ristretto?» Batté il dito sugli appunti e disegni accuratissimi che Jan aveva messo sulla tavola, tra il microscopio e il cranio di una improbabile creatura subacquea. «Spero che l’ossigeno non sia necessario» rispose Jan. «Sappiamo che i Superni possono respirare la nostra atmosfera ma non sembrano amarla molto e io potrei non essere in grado di adattarmi alla loro. Quanto alle scorte, la narcosamina risolverà brillantemente il problema. È sicurissima. Appena partiti, mi farò un’iniezione che mi metterà fuori combattimento per sei settimane, giorno più giorno meno. Saremo quasi arrivati, per quel momento. In realtà, non era tanto dell’ossigeno o dei viveri che mi preoccupavo, quanto della noia.» Sullivan annuì con aria saputa. «Sì, la narcosamina è abbastanza sicura e la si può dosare con un massimo di precisione. Ma badate a munirvi di una discreta quantità di viveri immediatamente disponibili: avrete una fame da lupo quando vi sveglierete, e vi sentirete più debole di un gattino appena nato. Immaginate la prospettiva di morire di fame per il solo fatto di non trovare la forza di usare un apriscatole?» «Ci avevo pensato, infatti» rispose Jan. «Mi difenderò con lo zucchero e la cioccolata, come al solito.» «Bene. Mi fa piacere che abbiate previsto anche i minimi particolari, senza sottovalutarli. È con la vostra vita che state giocando, e non mi perdonerei mai di avervi aiutato a commettere un suicidio.» Prese il cranio non meglio identificato e si pose a guardarlo con l’aria di pensare ad altro. Jan si affrettò a mettere la mano sul foglio dei disegni, per impedirgli di arrotolarsi. «Per fortuna» riprese Sullivan «il materiale che vi occorre è di tipo corrente, e il nostro laboratorio potrà farvi trovare tutto pronto in un paio di settimane. E nell’ipotesi che cambiaste idea…» «Non cambierò idea» disse Jan. «Ho messo in bilancio tutti i rischi che ho deciso di correre, e non sembrano esservi errori nel mio piano. In capo a sei settimane salterò fuori dal mio nascondiglio come qualunque altro clandestino e mi consegnerò ai Superni. Ma in quel momento, il viaggio sarà quasi finito, in base al mio tempo, non dimenticarlo. Staremo per atterrare sul pianeta dei Superni. «Naturalmente, tutto quello che accadrà da quel momento in poi, saranno loro a deciderlo. Probabilmente, sarò rispedito sulla Terra con la prima astronave, ma almeno ho la speranza di vedere qualcosa. Ho una macchina fotografica da quattro millimetri e una buona scorta di pellicola: non sarà colpa mia se non potrò servirmene. Anche nella peggiore delle ipotesi, avrò dimostrato che gli esseri umani non possono essere tenuti in quarantena per sempre. Avrò stabilito un precedente che costringerà Karellen a fare qualcosa. «E ora, Maia cara, ti ho detto tutto quello che dovevo dirti. So che non sentirai molto la mia mancanza: ma siamo sinceri, e confessiamo che non siamo mai stati legati da troppi vincoli. Inoltre, ora che sei sposata con Rupert, sarai completamente felice nel tuo universo privato. Almeno lo spero. «Addio, dunque, e buona fortuna, Maia. Sarà per me una gioia conoscere i tuoi nipoti… Non dimenticherai di informarli della mia esistenza, vero? «Il tuo affezionatissimo fratello, Jan.» 12 Quando Jan lo vide per la prima volta, trovò difficile convincersi che non assisteva al montaggio della fusoliera di un piccolo aereo. Lo scheletro metallico era lungo venti metri, perfettamente aerodinamico e circondato da un’intelaiatura leggera che degli operai martellavano coi loro strumenti automatici. «Sì» disse Sullivan in risposta alla domanda di Jan «usiamo la normale tecnica aeronautica, e infatti la maggior parte di questi operai provengono dall’industria aeronautica. Non si crederebbe che una creatura di queste dimensioni potesse essere viva, o gettarsi d’un balzo completamente fuori dell’acqua, come l’ho vista fare.» Era tutto molto affascinante, ma Jan aveva altre cose in mente. I suoi occhi andavano frugando lo scheletro gigantesco alla ricerca del nascondiglio per la sua celletta, la «bara ad aria condizionata», come Sullivan l’aveva battezzata. D’una cosa almeno fu subito certo: in quanto a spazio c’era posto per una dozzina di clandestini. «La struttura interna parrebbe quasi completa» disse Jan. «Quando contate di ricoprirlo della sua pelle? Suppongo che abbiate già catturato il vostro capodoglio, diversamente non avreste saputo quali dimensioni dare allo scheletro.» Sullivan parve immensamente divertito dall’osservazione. «Ma noi non abbiamo la più lontana intenzione di catturare un capodoglio. E del resto, questi cetacei non hanno una «pelle» nell’accezione normale del termine. Sarebbe la cosa meno pratica del mondo ricoprire questo scheletro con uno strato di grasso spesso venti centimetri. No, l’intera faccenda sarà simulata con un modello di materie plastiche su cui spargeremo con molta cura una mano di tintura. Quando avremo finito, nessuno potrà accorgersi della differenza.» Nel qual caso, pensò Jan, la sola cosa intelligente che potrebbero fare i Superni sarebbe scattare delle fotografie e poi fare il modello a grandezza naturale una volta tornati sul loro pianeta. Ma forse le astronavi addette ai rifornimenti tornavano vuote, e una bazzecola come un capodoglio lungo venti metri non era un bagaglio di cui potessero accorgersi. Quando si possedevano il loro potere e le loro risorse, a che scopo fare certe trascurabili economie? Il professor Sullivan stava ritto presso una delle grandi statue che erano sempre state una sfida all’archeologia fin da quando l’isola di Pasqua era stata scoperta. Monarca, dio, o qualunque altra cosa potesse rappresentare, il suo sguardo senz’occhi sembrava seguire quello del professore, intento a osservare la propria opera. Sullivan era fiero di ciò che aveva fatto: gli sembrava un delitto che quel capolavoro tra breve venisse sottratto per sempre dalla vista degli uomini. Il quadro sarebbe potuto essere l’opera di un artista folle in preda a delirio da stupefacenti. E nello stesso tempo era una scrupolosa imitazione dal vero. La Natura stessa era artista, lì. La scena era di quelle che pochi uomini avevano visto prima che si raggiungesse la perfezione delle riprese televisive subacquee, ma anche con la televisione era una scena che durava solo alcuni secondi, nelle rare occasioni in cui i giganteschi antagonisti salivano scrosciando vorticosi alla superficie. Quelle battaglie si combattevano nell’interminabile notte degli abissi oceanici, là dove i colossali capodogli andavano alla ricerca di cibo. E quel cibo si ribellava con la forza a essere divorato vivo. La lunga mascella inferiore del cetaceo, dai denti seghettati, sbadigliava mostruosamente, preparandosi ad accogliere la preda. La testa della vittima era quasi nascosta sotto il guizzante intrico dei bianchi tentacoli carnosi, coi quali la piovra gigantesca lottava disperatamente in difesa della vita. I lividi segni lasciati dalle ventose, segni che avevano il diametro d’una ventina di centimetri, variegavano la pelle del capodoglio, là dove i tentacoli si erano avvinghiati. Ma un tentacolo era già stato ridotto a un mozzicone troncato di netto, e non poteva esservi dubbio sull’esito finale della lotta. Quando i due più grandi animali del pianeta si davano battaglia, era sempre il capodoglio a vincere, perché, nonostante tutta l’immensa forza racchiusa nella foresta dei tentacoli, la piovra poteva soltanto sperare di fuggire prima che quelle fauci l’avessero fatta a pezzi. Gli immensi occhi senza espressione (mezzo metro di diametro), fissavano il suo carnefice, anche se, con ogni probabilità, nessuna delle due creature poteva vedere l’altra nelle tenebre dell’abisso. L’intero gruppo aveva una lunghezza di oltre trenta metri, e ora lo circondava una travatura di alluminio già agganciata al paranco di sollevamento. Tutto era pronto, secondo il piacere dei Superni. Sullivan si augurò che facessero alla svelta: la tensione stava diventando intollerabile. Qualcuno uscì dall’ufficio nella gran luce del sole, palesemente alla ricerca del professore. Sullivan riconobbe il suo assistente e si affrettò ad andargli incontro. «Salve, Bill… Ci sono novità?» L’altro gli porse un modulo con espressione soddisfatta. «Buone notizie, professore. Siamo stati onorati! Il Supercontrollore in persona desidera venire a dare un’occhiata al nostro gruppo, prima che venga caricato. Pensate alla pubblicità che significa per noi un gesto simile! Ci servirà enormemente, quando faremo la richiesta di quella nuova concessione di crediti! Era proprio qualche cosa del genere che speravo da tanto tempo!» Sullivan inghiottì con uno sforzo. Non aveva niente contro la pubblicità, ma questa volta temeva di averne troppa. Karellen si fermò presso la testa del capodoglio e guardò da sotto in su il gran muso tozzo e le fauci irte di avorio. Sullivan, con malcelato disagio, si chiese che cosa stesse pensando il Supercontrollore. Il suo atteggiamento fino a quel momento non aveva rilevato il minimo sospetto da parte sua, e la visita poteva anche essere del tutto naturale. Ma Sullivan si sarebbe sentito felice, quando tutto fosse finito. «Non abbiamo animali così grandi sul nostro pianeta» disse Karellen. «È questo il motivo per cui vi abbiamo pregato di fare questa composizione. I miei… compatrioti la troveranno affascinante.» «Con la vostra bassa gravità» rispose Sullivan «c’era da credere che si fossero sviluppati animali di grandi dimensioni. Del resto, la vostra corporatura è notevolmente superiore alla nostra.» «Sì… ma non abbiamo oceani. E per quanto riguarda le dimensioni, la terra non può mai competere col mare.» Cosa perfettamente vera, pensò Sullivan. E da quel che ne sapeva, quello era un fatto sconosciuto riguardo al mondo dei Superni. Jan avrebbe visto cose molto interessanti. «Nella vostra Bibbia» riprese Karellen «si legge il racconto molto notevole di un profeta ebreo, un certo Giona, se non erro, che fu inghiottito da una balena e così trasportato a riva sano e salvo, dopo essere stato gettato in mare dalla sua nave. Ritenete che il mito si basi su fatti realmente avvenuti?» «Io credo» rispose Sullivan cautamente «che ci sia stato qualche pescatore di balene che inghiottito da un cetaceo sia poi stato rigurgitato senza gravi conseguenze. Naturalmente, non può essere stato in gola alla balena più di qualche secondo, diversamente sarebbe morto soffocato. E deve aver avuto molta fortuna a non impigliarsi nei denti! È una storia quasi incredibile, ma non impossibile.» «Molto interessante» disse Karellen. Rimase là ancora per qualche secondo a fissare le fauci cavernose, quindi si spostò di alcuni passi, per osservare la piovra. Sullivan s’augurò che non avesse sentito il suo sospiro di sollievo. «Se avessi saputo tutto quello che dovevo passare» disse Sullivan «vi avrei cacciato dal mio ufficio non appena avete tentato di contagiarmi con la vostra follia.» «Mi dispiace molto» rispose Jan. «Ma in fondo ce la siamo cavata.» «Speriamo. Buona fortuna, a ogni modo. Se voleste cambiare idea, avete ancora almeno sei ore di tempo.» «Non mi serviranno. Solo Karellen potrebbe fermarmi, adesso. E grazie per tutto quello che avete fatto per me. Se mai dovessi tornare, in grado di scrivere un libro sui Superni, lo dedicherò a voi.» «Un gran bene, mi farà, il vostro libro!» rispose bruscamente Sullivan. «Sarò morto da decenni!» Con sua grande meraviglia, e anche un’ombra di costernazione perché non era certo un sentimentale, si accorse che quegli addii cominciavano a commuoverlo. Si era abituato a Jan in quelle settimane passate insieme a cospirare, e gli si era affezionato. Inoltre, cominciava a temere di diventare correo in una forma alquanto complicata di suicidio. Tenne ferma la scaletta, mentre Jan saliva entro la gran bocca, facendo bene attenzione a non toccare le file dei denti. Alla luce della torcia elettri-ca, vide Jan voltarsi e fargli un cenno di saluto, poi scomparire nella cavità. S’udì il suono del portello a chiusura stagna che si apriva e richiudeva. Infine, silenzio. Nel chiaro di luna che aveva trasformato la battaglia pietrificata in una scena d’incubo, il professor Sullivan tornò lentamente verso il suo ufficio. Rifletteva su quello che aveva fatto e sulle conseguenze. Conseguenze che lui avrebbe sempre ignorato, naturalmente. Jan sarebbe forse tornato a camminare in quello stesso punto del mondo avendo speso soltanto qualche mese di vita nel viaggio di andata per il pianeta dei Superni e in quello di ritorno. Ma questo ritorno, se ci fosse stato, sarebbe avvenuto oltre l’invalicabile barriera del Tempo, perché l’evento avrebbe potuto verificarsi solo ottant’anni più tardi. Le luci si spensero nel minuscolo cilindro metallico appena Jan ebbe serrato il portello a chiusura stagna. Non si abbandonò a riflessioni e pentimenti, ma si mise immediatamente a controllare l’inventario che aveva già preparato. Tutte le scorte e le provviste erano già state stivate da alcuni giorni, ma un’ultima verifica l’avrebbe messo nel giusto stato d’animo che gli occorreva, con la certezza che non era stato trascurato niente. Un’ora più tardi, soddisfatto, si sistemò comodo nella poltroncina di gomma piuma, e ricapitolò il suo piano punto per punto. Lì dentro l’unico rumore era il ronzio dell’orologio-calendario da cui avrebbe saputo quando il viaggio stava per finire. Per quanto tremenda fosse la forza che faceva volare l’astronave dei Superni, grazie alla perfetta compensazione lì nella sua nicchia lui non avrebbe sentito niente. Sullivan aveva controllato con cura questo particolare, sottolineando che il nascondiglio non avrebbe resistito oltre una certa gravità, e gli aveva assicurato che da quel lato non c’erano pericoli. Naturalmente durante il volo ci sarebbe stato un cambiamento considerevole di pressione, che non avrebbe però portato alcun danno, perché le bestie, cave all’interno, «respiravano» da diversi fori appositi. Prima di uscire dalla sua nicchia, Jan avrebbe dovuto controllare la pressione per compensare un eventuale squilibrio. Per quanto riguardava una probabile irrespirabilità dell’atmosfera, infine, un semplice respiratore composto da una bombola di ossigeno e una maschera sarebbe bastato per ovviare all’inconveniente. Se invece l’aria all’interno dell’astronave era respirabile, tanto meglio. Tutto molto chiaro. Bene, non c’era scopo ad aspettare ancora. Rimandare avrebbe soltanto acuito la tensione nervosa. Trasse la piccola siringa, già carica di una soluzione accuratamente preparata. La narcosamina era stata scoperta durante le ricerche nel campo dell’ibernazione animale. Non era esatto dire, come credevano i profani, che la narcosamina producesse una sospensione della vita fisiologica. Tutto quello che faceva era rallentare enormemente i processi vitali, ma il metabolismo continuava, sebbene con un ritmo infinitamente minore. Era come gettare cenere sul fuoco della vita per lasciarlo covare inavvertito. Ma quando, dopo settimane o mesi, gli effetti della droga cominciavano a svanire, il fuoco riprendeva la sua forza, e il dormiente ricominciava a vivere al punto in cui era rimasto. La narcosamina era assolutamente innocua. La Natura se ne serviva da un milione di anni per proteggere molti dei suoi figli dagli inverni senza cibo. Così Jan dormì. Non sentì la trazione dei cavi che issavano l’enorme gabbia metallica fin entro il ventre dell’astrocargo dei Superni. Non udì i portelli che si chiudevano, per riaprirsi soltanto dopo milioni e milioni di chilometri. Non udì lontanissimo, appena percettibile al di là delle paratie di titanio, l’urlo di protesta dell’atmosfera terrestre lacerata dall’astronave che risaliva rapidissima verso il suo elemento naturale. E non sentì infuriare la superpropulsione. 13 La sala delle riunioni era sempre affollata in occasione di quegli incontri settimanali, ma oggi era così gremita che i cronisti non riuscivano nemmeno a prendere note. Per la centesima volta, brontolavano tra loro contro lo spirito conservatore di Karellen e la sua mancanza di considerazione. In qualunque altra parte del mondo avrebbero potuto portare telecamere, nastri magnetici e tutti gli altri strumenti del loro specializzatissimo lavoro. Ma lì dovevano affidarsi a mezzi arcaici come la carta e la matita, e perfino, incredibile a dirsi, la stenografia. Le prime volte c’erano stati diversi tentativi di registrazione, molto più comodo che non stenografare, ma il fumo che era uscito immediatamente dai registratori aveva convinto tutti dell’inutilità del tentativo, e anche spiegato perché veniva sempre consigliato di lasciare fuori della sala delle conferenze gli orologi e altre eventuali congegni metallici. Per colmo d’ironia Karellen registrava invece tutto ciò che veniva detto. Alcuni giornalisti colpevoli di leggerezza e di imprecisione o di malafede, per quanto questi ultimi casi fossero stati molto scarsi, erano stati in seguito convocati per un breve e spiacevole incontro con degli incaricati di Karellen, che li avevano pregati di ascoltare attentamente la registrazione di quello che il Supercontrollore aveva realmente detto. Dopo quella volta, la lezione non dovette più essere ripetuta. Strano come circolano certe notizie. Ogni volta che Karellen doveva fare qualche importante dichiarazione, cosa che capitava due o tre volte all’anno, la sala delle conferenze era sempre affollata nonostante che non venisse mai dato nessun preannuncio. Il silenzio discese sulla turba mormorante quando i grandi portali si spalancarono e Karellen avanzò sul palco. La luce qui era fioca — una luce come quella, approssimativamente, che emetteva il lontanissimo sole dei Superni così che il Supercontrollore della Terra aveva fatto a meno degli occhiali neri che di solito portava allo scoperto. Rispose al coro discorde di saluti con un «Buon giorno a tutti» di prammatica, e poi si volse verso un’alta figura di particolare distinzione in prima fila. Il signor Golde, decano dell’Associazione della Stampa, sarebbe potuto essere l’ispiratore ufficiale dell’annuncio, da parte di un maggiordomo: «Tre cronisti, milord, e un signore del ‘Times’». Era vestito come un diplomatico di vecchia scuola e ne aveva i modi: nessuno avrebbe esitato un istante ad aver fiducia in lui e nessuno aveva mai dovuto pentirsi, infatti, di essersi fidato. «Quanta gente oggi, signor Golde. Deve esserci una grande scarsità di notizie sensazionali.» L’inviato del «Times» sorrise, e si schiarì la voce. «Spero che possiate smentire il fatto, signor Supercontrollore.» Osservò attentamente Karellen che meditava sulla risposta da dare. Sembrava così ingiusto che le facce dei Superni, dure ed ermetiche come maschere, non rivelassero ombra d’emozione! I grandi occhi distanziati, le pupille fortemente contratte anche in quella luce blanda, ricambiavano insondabilmente le occhiate francamente curiose degli umani. «Sì, ho qualche notizia interessante. Come indubbiamente sapete, una delle mie astronavi addette ai rifornimenti ha lasciato di recente la Terra per tornare alla sua base. Abbiamo appena scoperto che a bordo c’era un clandestino» disse il Supercontrollore. Cento matite s’impuntarono sulla carta, immobilizzandosi: cento paia d’occhi fissarono Karellen. «Un clandestino, avete detto, signor Supercontrollore?» chiese Golde. «Posso domandarvi chi è e come è salito a bordo?» «Il suo nome è Jan Rodricks: si tratta di uno studente di fisica e astronomia dell’Università di Città del Capo. Potrete senza dubbio scoprire altri particolari grazie ai vostri efficientissimi organismi d’informazione.» Karellen sorrise. Il sorriso del Supercontrollore era una cosa molto strana. Quasi tutto l’effetto in realtà era dato dagli occhi: la inflessibile bocca senza labbra non si muoveva quasi. Era forse, pensò Golde, un’altra delle molte caratteristiche umane che Karellen aveva imitato con tanta abilità? Perché l’effetto totale era senza dubbio quello d’un sorriso, e la mente lo accettava all’istante come tale. «Quanto al modo in cui è potuto partire» continuò Karellen «non ha molta importanza. Posso assicurare i presenti, o qualunque altro potenziale astronauta, che non c’è nessuna possibilità di ripetere l’impresa.» «Ma che cosa accadrà a questo Rodricks?» insistette Golde. «Sarà rimandato sulla Terra?» «È una cosa, questa, che esula dalle mie competenze, ma ritengo che tornerà con la prima nave in arrivo. Troverebbe condizioni troppo… diverse… per sentirsi a suo agio, là dove è andato. E ciò mi riconduce allo scopo principale della nostra riunione.» Karellen fece una pausa, e il silenzio divenne ancor più profondo. «Ci sono state lamentele tra i più giovani e romantici elementi della specie umana perché lo spazio cosmico è stato proibito all’uomo. Noi abbiamo uno scopo preciso, signori, non imponiamo divieti per il solo gusto d’imporli. Vi siete mai soffermati a considerare, se mi perdonerete un paragone non molto lusinghiero, che cosa avrebbe sentito un uomo dell’Età della Pietra se si fosse trovato a un tratto in una grande città moderna?» «Eppure» protestò l’inviato dell’»Herald Tribune» «c’è indubbiamente una differenza fondamentale. Noi abbiamo fatto l’abitudine alla scienza. Sul vostro mondo ci sono moltissime cose che senza dubbio noi non potremmo capire… ma non ci sembrerebbero davvero opera di magia!» «Ne siete proprio sicuro?» ribatté Karellen così piano che fu appena possibile udirlo. «Non più di cento anni intercorrono fra l’era della elettricità e quella del vapore, ma cosa se ne sarebbe fatto, un ingegnere dell’Ottocento, di un televisore o di una calcolatrice elettronica? E quanto gli sarebbe rimasto da vivere se avesse voluto scoprire il loro funzionamento? Il divario fra due tecnologie può essere così ampio, da rivelarsi… letale.» («Siamo fortunati» disse l’inviato della «Reuter» a quello della BBC. «È in vena di dichiarazioni importanti sulla loro politica nei nostri riguardi. Conosco i sintomi.)» «E ci sono altre ragioni per cui abbiamo costretto il genere umano entro i confini della Terra. Osservate.» Le luci si affievolirono e infine si spensero. Nell’istante in cui scomparvero, un’opalescenza lattiginosa si formò nel centro della sala, macchia di luce biancastra che si condensò poi in un vortice di stelle… una nebulosa a spirale vista da un punto posto molto al di là del suo sole più esterno. «Nessun occhio umano ha mai visto questa immagine prima d’ora» disse la voce di Karellen dal buio. «Voi ora state guardando il vostro Universo, l’isola galattica di cui il vostro Sole fa parte, da una distanza di mezzo milione di anni luce.» Seguì un lungo silenzio. Quando Karellen riprese a parlare, nella sua voce era percettibile un sentimento che non era del tutto pietà e non precisamente sarcasmo. «Oggi avete un mondo in pace, siete una specie unita. In breve vi sarete abbastanza inciviliti da poter governare il vostro pianeta senza il nostro aiuto. Forse potrete alla fine addossarvi i problemi di un intero Sistema Solare… diciamo di cinquanta mondi fra lune e pianeti. Ma credete davvero di poter mai avere a che fare con questo?» La nebulosa cominciò a dilatarsi. Ora le singole stelle passavano via velocissime; apparendo, avvicinandosi, scomparendo infine come faville lanciate dall’alito di una immensa fucina. E ognuna di quelle scintille fuggenti era un sole, con chi sa quanti mondi che gli gravitavano intorno… «In questa sola nostra galassia» mormorò Karellen «ci sono ottantasettemila milioni di soli. Ma anche questa cifra non dà che un’idea molto vaga dell’immensità dello spazio. Sfidandola, sareste come formiche che tentassero di classificare ed etichettare tutti i granelli di sabbia di tutti i deserti del mondo. La vostra razza, allo stato attuale della sua evoluzione, non è in grado di affrontare una sfida così grandiosa. Uno dei miei doveri è stato quello di proteggervi dalle forze che si trovano fra le stelle… forze superiori a qualunque cosa possiate mai immaginare.» L’immagine dei turbinanti vapori infuocati della galassia cominciò a sbiadire, e la luce tornò nel silenzio attonito della sala. Karellen si mosse: la conferenza era finita. Sulla soglia si fermò, volgendosi a guardare la folla, che tacque all’istante. «È un pensiero che rattrista, ma dovete rassegnarvi. Può darsi che un giorno possiate conquistare i pianeti. Ma le stelle non sono per l’uomo.» «Le Stelle non sono per l’Uomo.» Sì, vedersi sbattere sul muso la porta dello spazio li avrebbe addolorati. Ma dovevano imparare a guardare in faccia la verità, o quella parte di verità che sarebbe stata data loro. Dalle solitarie altezze della stratosfera, Karellen abbassò lo sguardo sul mondo e sulle creature che erano state affidate alla sua riluttante tutela. Pensò a tutto quello che doveva ancora succedere e a quello che sarebbe stato quel mondo fra una decina di anni al più tardi. Non avrebbero mai saputo quanto erano stati fortunati. Per la durata di un’intera vita umana, il genere umano aveva raggiunto tanta felicità quanta qualunque specie vivente possa mai conoscere. Era stata l’Età dell’Oro. Ma l’Oro era anche il colore del tramonto, dell’autunno: e soltanto le orecchie di Karellen potevano cogliere i primi gemiti delle bufere invernali. E solo Karellen sapeva con quanta inesorabile rapidità l’Età dell’Oro volgesse alla fine. PARTE TERZA L’ULTIMA GENERAZIONE 14 «Guarda qui!» esplose George Greggson, lanciando il giornale verso Jean al disopra della tavola. Nonostante gli sforzi di lei per prenderlo al volo, il foglio cadde ad ali spiegate nel bel mezzo della tavola. Ripulitolo pazientemente della marmellata, Jean lesse il brano incriminato, facendo del suo meglio per dimostrare la sua disapprovazione. Non che fosse molto brava in questo, dato che anche troppo spesso era d’accordo con i critici. Di solito teneva per sé quelle opinioni eretiche, e non solo per spirito di pace e di armonia. George era dispostissimo ad accettare le sue lodi, ma appena Jean accennava la minima critica a una sua opera si vedeva infliggere una lezione da lasciare i lividi sulla sua ignoranza in fatto di estetica. Lesse la critica due volte e infine rinunciò a capire. Era una critica del tutto favorevole, e lo disse. «A quanto pare lo spettacolo è piaciuto. Che cosa c’è da brontolare?» «Qui» ringhiò George, battendo il dito al centro della colonna. «Rileggi qui.» «Specialmente riposanti per gli occhi i delicati verdi pastello dello sfondo nella sequenza del balletto» lesse Jean. «Ebbene?» «Ma non erano verdi! Non so quanto tempo ho sciupato per trovare pro-prio quella sfumatura azzurrina! E che cosa succede? O qualche maledetto tecnico della cabina controllo sconvolge l’equilibrio dei colori, o quel cretino d’un critico ha un difetto alla vista! A proposito, che colore è apparso sul tuo apparecchio?» «Oh… non me lo ricordo» ammise Jean. «Bambola ha cominciato a strillare proprio in quel momento, e sono dovuta correre di là a vedere che cos’era successo.» «Capisco» disse George, scivolando in uno stato di calma illusoria, dolcemente ribollente, sotto sotto. Jean capì che un’altra esplosione poteva verificarsi da un momento all’altro. «Ho inventato una nuova definizione per la TV» riprese lui in un mormorio cupo. «È uno strumento per ostacolare i contatti fra l’artista e il suo pubblico.» «E che cosa vorresti fare? Ritornare al teatro vero e proprio?» «Perché no? È proprio quello che ho pensato di fare. Ti ricordi della lettera che ho ricevuto da quelli di Nuova Atene? Mi hanno scritto ancora. Questa volta ho deciso di rispondere.» «Davvero?» disse Jean, lievemente preoccupata. «Secondo me, sono una manica di eccentrici.» «Ebbene, questo è il solo modo per averne la prova. È mia intenzione andarli a trovare tra una quindicina di giorni. Bisogna riconoscere che la loro propaganda è delle più equilibrate e convincenti. E ci sono uomini eccellenti tra loro.» «Se speri di vedermi cucinare un giorno o l’altro su di un fuoco di sterpi, o apparirti davanti vestita di pelli, ti fai…» «Non dire sciocchezze! Sono tutte storie. La colonia ha tutto quello che serve per vivere in modo civile. Il loro sistema esclude i fronzoli e le sovrastrutture inutili, ecco tutto. Del resto, sono almeno due anni che non vedo più il Pacifico; sarà una bellissima gita per tutt’e due.» «Sono d’accordo con te» disse Jean. «Ma non voglio che Bambola e Primo crescano come due selvaggi della Polinesia.» «Non cresceranno come due selvaggi. Te lo prometto.» Aveva ragione, ma non nel senso che intendeva lui. «Come avrete osservato arrivando con l’aereo» disse l’uomo sull’altro lato della veranda «la Colonia consiste di due isole, collegate da una striscia di terra su cui passa la strada. Una è Atene, l’altra, l’abbiamo battezzata Sparta. È un’isola selvaggia, rocciosa, un luogo ideale per praticare lo sport o comunque ogni specie di esercizi fisici.» Il suo sguardo si soffermò momentaneamente sul ventre e i fianchi del visitatore, e George si agitò nella sua poltrona di vimini. «Sparta è un vulcano spento, incidentalmente. Almeno, i geologi dicono che sia spento. Ma, per tornare ad Atene: scopo della Colonia è di fondare un gruppo culturale, stabile e indipendente, con le sue tradizioni artistiche. Sarà meglio dire subito che molte ricerche sono state effettuate prima che noi intraprendessimo questa iniziativa. Si tratta in realtà di vera e propria scienza sociale applicata, che si basa su una matematica così complessa che non fingerò di averla capita. So però che i sociologi matematici hanno calcolato quanto dovrebbe essere numerosa la Colonia, quanti tipi di persone dovrebbe contenere, e soprattutto quale dovrebbe essere la sua costituzione per una stabilità di lunga durata. Siamo diretti da un Consiglio di otto direttori, che rappresentano Produzione, Energia, Tecnica Sociale, Arte, Scienze Economiche, Scienza, Sport e Filosofia. Non c’è un presidente in permanenza. La carica di presidente è ricoperta a turno da ognuno dei direttori per un anno ogni volta. «La nostra popolazione presente è di poco superiore alle cinquantamila unità, cifra inferiore all’optimum desiderato. Ecco perché siamo sempre alla ricerca di reclute. E, naturalmente, c’è un minimo di sciupio: non siamo del tutto autosufficienti in alcune delle capacità più specializzate. «Qui, su quest’isola, ci studiamo di salvare qualche cosa della indipendenza dell’uomo: le sue tradizioni artistiche. Non abbiamo nessuna ostilità nei riguardi dei Superni, vogliamo soltanto essere lasciati in pace e proseguire per la nostra strada. Quando essi hanno cancellato le antiche nazioni e il modo di vita che l’uomo conosceva dagli inizi della storia, hanno spazzato via, insieme con le cattive, molte buone cose. Il mondo ora è in pace, senza caratteristiche proprie, culturalmente morto. Niente di nuovo è stato creato dall’avvento dei Superni. La ragione è evidente. Non è rimasto niente per cui valga la pena di lottare, e ci sono troppi svaghi, distrazioni e divertimenti. «Qui ad Atene lo svago ha le sue giuste proporzioni. Inoltre, è una cosa viva, non in scatola. In una comunità delle nostre dimensioni è possibile avere una partecipazione quasi completa del pubblico. A proposito, abbiamo anche un’orchestra sinfonica d’eccezionale valore. Ma non voglio che mi prendiate in parola. Di solito i candidati alla cittadinanza della Colonia si fermano qui qualche giorno ad assorbire l’atmosfera del posto. Se decidono di unirsi a noi, li sottoponiamo al tiro di sbarramento degli esami psicologici, che rappresentano la nostra vera linea principale di difesa. Un terzo circa dei candidati di solito viene respinto, quasi sempre per motivi che non hanno riflessi su di loro e che, fuori di qui, non avrebbero nessuna importanza. Coloro che superano la prova, di solito tornano a casa giusto il tempo per sistemare i loro affari, poi ritornano tra noi. Talvolta cambiano idea in questa fase, ma avviene molto di rado, e quasi sempre per motivi personali indipendenti dalla loro volontà. I nostri esami sono oggi praticamente sicuri nella misura del cento per cento: coloro che li superano sono proprio persone che desiderano venire tra noi.» «E se qualcuno cambiasse idea più tardi?» domandò Jean ansiosamente. «Sono liberi di andarsene. Non esiste nessuna difficoltà. Si è già verificato un paio di volte.» Seguì un lungo silenzio. Jean guardò George, che si stropicciava pensieroso le folte basette, ritornate in gran voga negli ambienti artistici. Se non c’era bisogno di bruciare i ponti alle spalle, lei non si preoccupava più del necessario. La Colonia sembrava un posto interessante, e certamente non si componeva di stravaganti e di eccentrici come aveva temuto. E i ragazzi ci si sarebbero trovati benissimo. E questo, in definitiva, era la cosa che contava di più. Si trasferirono a Nuova Atene sei settimane dopo. La casa a un solo piano era piccola, ma del tutto adeguata a una famiglia che non aveva intenzione di contare più di quattro membri. Tutti i congegni fondamentali per l’economia del lavoro manuale erano in mostra: almeno, come Jean dovette riconoscere, non c’era pericolo di ripiombare nelle tenebre medievali delle sfacchinate domestiche. Ma sconvolgeva un po’ scoprire che c’era una cucina. In una comunità così numerosa, si sarebbe potuto credere, normalmente, alla possibilità di telefonare alla Centrale Ristoranti, attendere cinque minuti e ricevere qualunque portata uno avesse scelto per pranzo o cena. L’autonomia individuale era una gran bella invenzione, ma questo, pensò Jean, era uno spingere le cose troppo in là. Si chiese vagamente se per caso non dovesse filare lei le stoffe con cui la famiglia si sarebbe vestita, oltre che preparare i pasti. Ma non si vedeva nessuna ruota di filatoio a mano tra la lavapiatti automatica e lo schermo del radar, per cui la situazione non si annunciava poi tanto terribile… Jean si avvicinò alla finestra ancora senza tendine e lasciò errare lo sguardo sulla Colonia. Era un posto stupendo, non c’era dubbio. La casa sorgeva sulle pendici occidentali della bassa montagna che dominava, senza rivali, l’isola di Atene. Due chilometri a nord si scorgeva la lingua di terra, una lama sottile nell’acqua, che portava a Sparta. Quell’isola rocciosa, col suo aggrondato cono vulcanico, faceva un tale contrasto con la serena Nuova Atene da mettere paura. Jean si chiese come facessero gli scienziati a dirsi tanto sicuri che il vulcano non si sarebbe ridestato per seppellirli tutti. Un rumore metallico annunciò l’arrivo della bicicletta di George. Jean si chiese quanto tempo sarebbe occorso a entrambi per imparare ad andare in bicicletta. Questo era un altro aspetto inatteso della vita sull’isola. Le auto private non erano permesse, e infatti non erano necessarie, dato che la massima distanza che si potesse percorrere in linea retta era meno di quindici chilometri. C’erano numerosi veicoli di servizio pubblico, di proprietà della Colonia: autocarri, ambulanze, autopompe, tutti tenuti, salvo casi eccezionali, a non superare i cinquanta chilometri all’ora. Di conseguenza, gli abitanti di Atene facevano molto moto, disponevano di strade non congestionate dal traffico meccanizzato, e pertanto non conoscevano incidenti stradali. George diede alla moglie un bacio frettoloso e distratto e si lasciò cadere con un sospiro di sollievo sulla sedia più vicina. «Uff!» fece, asciugandosi la fronte. «Mi sono lasciato sorpassare da tutti sulla salita della collina, quindi è probabile che col tempo migliori anch’io. Sono convinto di avere già perso almeno dieci chili.» «Com’è andata la giornata?» domandò Jean da brava moglie. Si augurava che George non fosse così stanco da non poterla aiutare a disfare le valige. «Molto stimolante. Non posso ricordarmi nemmeno la metà della gente che ho conosciuto, ma sembrano tutti molto cordiali e gentili. E il teatro è proprio buono, esattamente come me lo aspettavo. Cominceremo a lavorare la settimana entrante con «Torniamo a Matusalemme» di Shaw. Mi è stata affidata tutta la scenografia. Sarà finalmente un refrigerio non avere più tra i piedi una mezza dozzina di persone che mi dicono tutto quello che non posso fare. Sì, credo proprio che finiremo per trovarci bene qui.» «Nonostante le biciclette?» George trovò energia sufficiente per un sorriso divertito. «Sì» rispose. «Tra un paio di settimane non mi accorgerò più nemmeno di questa nostra insignificante collinetta.» Non ci credeva, e invece fu proprio così. Ma a Jean ci volle almeno un mese per smetterla di rimpiangere l’automobile e scoprire tutte le cose che si possono fare con una cucina propria. Nuova Atene non era nata spontaneamente da un primo agglomerato come aveva fatto la città di cui portava il nome: tutto, nella Colonia, era stato progettato, voluto e realizzato, dopo anni di studi, a opera d’un gruppo di uomini molto in gamba. Aveva avuto inizio come una cospirazione aperta contro i Superni, sfida sottintesa, se non alla loro potenza, alla loro politica. Dapprima gli esponenti della Colonia si erano sentiti quasi certi che Karellen avrebbe nettamente frustrato i loro sforzi, invece il Supercontrollore non aveva fatto niente, assolutamente niente. Non che ciò fosse parso rassicurante, come ci si sarebbe potuti aspettare. Karellen aveva a sua disposizione tutto il tempo che voleva: poteva anche preparare un colpo di risposta molto ritardato. Oppure era così certo del fallimento del progetto, da non avere bisogno di intraprendere niente contro la Colonia. Molti avevano predetto che la Colonia sarebbe stata un fallimento. Eppure anche nel passato, molto prima che si raggiungesse la conoscenza della dinamica sociale, erano esistite parecchie comunità con un loro specifico scopo religioso o filosofico. Era vero che la percentuale di simili comunità andate in rovina era altissima. Qualcuna però era sopravvissuta. E ora Nuova Atene aveva fondamenta rese sicure dalla scienza moderna. I motivi per la scelta di un’isola come sede della comunità erano numerosi. In un’epoca in cui le distanze erano abolite dalla facilità dei mezzi aerei, l’oceano non era più una barriera materiale, ma serviva ancora a dare una sensazione di isolamento. Inoltre, le dimensioni limitate di un’isola rendevano impossibile accettare nella Colonia più di un certo numero di persone. La popolazione massima era stata fissata in centomila abitanti, di più avrebbe significato la perdita dei vantaggi possibili invece a una piccola comunità affiatata. Uno degli scopi dei fondatori di Nuova Atene era che ogni membro della Colonia conoscesse tutti gli altri cittadini che avevano i suoi stessi interessi, e possibilmente l’uno o il due per cento anche degli altri. L’uomo che aveva voluto Nuova Atene era un ebreo. E, come Mosè, non aveva vissuto tanto da mettere piede nella sua terra promessa, perché la Colonia era stata fondata tre anni dopo la sua morte. Era nato in Israele, l’ultima nazione indipendente che fosse stata creata e pertanto quella che aveva avuto vita più breve. La fine della sovranità nazionale era stata sentita in Israele con maggior amarezza, forse, che altrove, perché è duro rinunciare a un sogno che si è appena conquistato dopo secoli di sforzi. Ben Salomon non era un fanatico, ma i ricordi della sua infanzia dovevano avere pesato non poco sulle idee che poi aveva messo in pratica. Poteva soltanto ricordare che cos’era il mondo prima della comparsa dei Superni, e non aveva nessun desiderio che le cose tornassero come prima. Come molti altri uomini intelligenti e bene intenzionati, apprezzava tutto quello che Karellen aveva fatto per la razza umana, pur continuando a soffrire per lo sconosciuto scopo finale di Karellen. Era possibile, si chiedeva spesso, che nonostante la loro immensa intelligenza, i Superni non capissero veramente il genere umano e commettessero un terribile errore con le migliori intenzioni? Era possibile che nella loro passione altruista per l’ordine e la giustizia, avessero deciso di riformare il mondo degli uomini, e non si fossero accorti che insieme stavano distruggendo l’anima dell’uomo? Il declino era appena cominciato, ma i primi sintomi della putredine già non erano difficili a scoprirsi. Salomon non era artista, ma aveva un’acuta comprensione dell’arte e sapeva che la sua epoca non avrebbe mai potuto rivaleggiare coi secoli precedenti in nessun campo artistico. Forse la situazione sarebbe migliorata col tempo, quando il trauma della collusione coi Superni si fosse attenuato. Ma poteva anche non migliorare, e un uomo prudente doveva cercare un riparo in qualche forma di assicurazione contro il peggio. Nuova Atene era stata la polizza d’assicurazione a cui Salomon aveva pensato. La sua realizzazione aveva richiesto vent’anni e la spesa di alcuni miliardi di dollari-decimali, una frazione infinitesima delle ricchezze del mondo. Per i primi quindici anni non era successo niente, negli ultimi cinque, tutto. L’impresa di Salomon sarebbe stata impossibile se lui non fosse riuscito a convincere della bontà del suo progetto un gruppo di artisti di fama mondiale. Essi lo avevano approvato non perché era importante per la razza ma perché sollecitava il loro «io». Una volta convinti, però, erano riusciti a farsi ascoltare dal mondo e ad averne l’appoggio. Dietro questa spettacolare facciata di nomi illustri, i veri progettisti della Colonia avevano realizzato i loro piani. Una collettività umana consiste di individui la cui condotta, in quanto tali, non è prevedibile. Ma se si prende in considerazione un numero sufficiente di unità fondamentali, allora certe leggi cominciano ad affiorare, come era stato scoperto già da molto tempo da alcune società di assicurazioni. Nessuno può dire quali individui morranno entro un certo periodo di tempo, pure il numero totale dei decessi può essere previsto con notevole precisione. Ci sono altre leggi, più sottili, intravedute per la prima volta ai primordi del ventesimo secolo da matematici come Weiner e Rashavesky. Costoro avevano sostenuto che eventi come crisi economiche, le conseguenze delle corse agli armamenti, la stabilità dei gruppi sociali, e così via, potevano essere analizzati con esatte tecniche matematiche. La grande difficoltà era il numero enorme di variabili, molte delle quali difficili a definirsi in termini numerici. Non si poteva tracciare un gruppo di curve e dichiarare: «Quando si sarà raggiunta questa linea, vorrà dire la guerra». E non si potevano mai prendere in considerazione eventi così imprevedibili come l’assassinio di un importante uomo politico o gli effetti di una nuova scoperta scientifica, e ancora meno, catastrofi naturali come terremoti o inondazioni che avrebbero potuto avere un effetto profondo su gran numero di persone e sui gruppi sociali entro cui queste persone vivevano. Eppure si poteva fare molto, grazie alla conoscenza pazientemente accumulata negli ultimi cento anni. Il compito sarebbe stato impossibile senza l’aiuto delle gigantesche macchine calcolatrici che potevano compiere il lavoro di un migliaio di calcolatori umani in pochi secondi. Di tali aiuti ci si era valsi al massimo quando la Colonia era stata concepita. Anche allora, i fondatori di Nuova Atene erano in grado soltanto di provvedere il suolo e il clima in cui la pianta che essi volevano far crescere sarebbe potuta — o non sarebbe potuta — fiorire. Come lo stesso Salomon aveva osservato: «Dell’ingegno possiamo essere certi: per il genio possiamo soltanto pregare». Ma era una speranza ragionevole che in una soluzione così concentrata potessero verificarsi delle reazioni interessanti. Pochi artisti fioriscono in solitudine, e niente è più stimolante dell’urto di menti con affinità d’interessi. Fino a quel momento, il conflitto aveva dato vita a opere di valore nel campo della musica, della scultura, della critica letteraria e della cinematografia. Era ancora troppo presto per sapere se il gruppo che lavorava nel campo delle ricerche storiche avrebbe realizzato le speranze di chi aveva voluto quelle gare, e che mirava a far rinascere l’orgoglio della razza per le proprie imprese. La pittura continuava a languire, dando così ragione a coloro che sostenevano che quella statica forma d’arte a due dimensioni non aveva futuro. Cosa notevole fu — anche se una spiegazione soddisfacente non si sia mai avuta — che il tempo era una parte essenziale nei risultati artistici meglio riusciti della Colonia. La stessa cultura era ben di rado statica. Le curve e i volumi esasperanti di Andrew Carson mutavano lentamente a misura che si guardava l’opera, secondo lineamenti complessi il cui insieme la mente sapeva apprezzare pur senza comprenderli. Infatti Carson affermava in modo abbastanza veritiero di aver portato i «motivi» di un secolo prima alla loro conclusione ultima, intrecciando così, in una sola entità, scultura e balletto. Gran parte della musica sperimentale della Colonia si basava, nel modo più consapevole, su quella che si potrebbe definire «durata del tempo». Qual era la nota più breve che la mente potesse afferrare… o la più lunga che potesse tollerare senza tedio? Il risultato poteva essere variato mediante il condizionamento o l’uso di un’orchestrazione appropriata? Di questi problemi si discuteva all’infinito, e le discussioni non erano solo accademiche perché ne erano risultate alcune composizioni di estremo interesse. Ma gli esperimenti più riusciti di Nuova Atene erano le opere d’arte realizzate nel campo dei cartoni animati. Nei cento anni passati dall’epoca di Disney non tutto era stato fatto di quel che era possibile fare con questo mezzo che offriva possibilità enormi. Dal punto di vista puramente spettacolare, si potevano ottenere risultati addirittura identici a quelli ottenuti con la fotografia, cosa questa che provocava lo sdegno di coloro che si dedicavano ai cartoni animati secondo una linea più astratta, più… impegnata. Il gruppo di artisti e scienziati che avevano fino a quel momento fatto meno era proprio quello che aveva destato il maggior interesse e ispirato la più grande apprensione. Si trattava del gruppo che lavorava alla «completa identificazione». La storia del cinema era la chiave stessa delle loro attività. Prima il cinema sonoro, poi quello a colori, quindi la stereoscopia, infine il cinerama avevano reso l’antica cinematografia sempre più simile alla realtà. Dove stava la conclusione ultima? Certo, l’ultima fase sarebbe stata raggiunta quando il pubblico, dimenticandosi di essere tale, sarebbe divenuto parte dell’azione stessa. Un uomo poteva diventare, almeno per un breve periodo, qualunque altra persona e poteva partecipare a qualunque specie di avventura, reale o immaginaria che fosse. Poteva diventare anche pianta o animale, se appariva possibile cogliere e registrare le impressioni sensorie di altre creature viventi. E quando il «programma» era concluso, il ricordo acquisito sarebbe stato così preciso e vivido come qualunque altra esperienza della sua vita reale, anzi, indistinguibile dalla realtà stessa. Prospettiva allucinante. Molti la trovavano anche terribile e si auguravano che l’iniziativa si concludesse con un fiasco. Ma sapevano nel fondo della loro anima che quando la scienza aveva dichiarato possibile una cosa, non c’era speranza di sfuggire alla sua attuazione definitiva… Questa, dunque, era Nuova Atene con alcuni dei suoi sogni. Essa sperava di diventare ciò che l’antica sarebbe potuta divenire se avesse posseduto macchine invece di schiavi, scienza invece di superstizioni. Ma era ancora troppo presto per poter dire se l’esperimento sarebbe riuscito. 15 Jeffrey Greggson era un isolano che per il momento non aveva ancora trovato niente d’interessante nella scienza o nell’estetica, le due principali passioni dei suoi genitori. Ma approvava con tutto il cuore la Colonia, anche se per motivi esclusivamente personali. Il mare, che non si trovava mai più lontano di qualche chilometro in qualunque direzione si guardasse, lo affascinava. La maggior parte della sua breve vita era trascorsa molto lontano, sul continente, e lui non si era ancora abituato del tutto alla novità di essere circondato dall’acqua. Era un buon nuotatore e se ne andava spesso in bicicletta, con altri compagni, portando la maschera e le pinne, a tuffarsi per esplorare le acque limpide e basse della laguna. Dapprima Jean non fu per niente contenta di queste esplorazioni, ma dopo aver fatto lei stessa qualche tuffo, dimenticò rapidamente la sua paura del mare e delle strane creature che l’abitavano, e lasciò che Jeffrey si divertisse a suo piacere, ma a una condizione: che non andasse in acqua da solo. L’altro membro della famiglia Greggson che aveva approvato in pieno la nuova vita era Fey, la bionda cagnetta da riporto che nominalmente apparteneva a George, ma che era inseparabile da Jeffrey. I due stavano sempre insieme tanto di giorno, quanto (se Jean non fosse risolutamente intervenuta) di notte. Solo quando Jeffrey se ne andava via in bicicletta, Fey restava a casa, distesa con aria inquieta presso la porta, a fissare la strada con umidi occhi tristi, il muso appoggiato sulle zampe anteriori. Cosa che mortificava George, il quale aveva pagato una bella cifra per Fey e il suo pedigree. A quanto pareva, avrebbe dovuto aspettare la nuova generazione, il cui avvento doveva verificarsi di là a tre mesi, se voleva avere un cane tutto per sé. Jean aveva altri piani in mente. Voleva bene a Fey, ma riteneva che un solo cane in famiglia fosse più che sufficiente. Solo Jennifer Anne non sapeva ancora se amava o no la Colonia. Cosa che non aveva in sé nulla di sorprendente, dato che fino a quel momento la bimba non aveva visto nulla del mondo che si stendeva oltre i pannelli di plastica del suo lettino e aveva ancora una certezza molto relativa che un simile luogo esistesse. George Greggson non pensava spesso al passato: era troppo assorto nei suoi piani per l’avvenire, troppo intento al suo lavoro e ai suoi bambini. Era difficile infatti che la sua mente tornasse indietro di molti anni a quella certa sera in Africa, e non ne parlava mai con Jean. L’argomento veniva evitato di comune accordo, e da quel famoso giorno non erano più andati a trovare i Boyce nonostante i ripetuti inviti. Parecchie volte all’anno chiamavano Rupert per fare le loro scuse, e alla fine lui aveva smesso di invitarli. E a proposito di Rupert, con sorpresa di tutti, il suo matrimonio con Maia reggeva ancora e molto bene. Altro effetto di quella serata: Jean non sentiva più nessun desiderio di frugare nei misteri ai limiti della scienza. La curiosità ingenua che l’aveva attirata un tempo verso Rupert e i suoi esperimenti era totalmente scomparsa. Forse era rimasta convinta e non voleva altre prove, ma George preferiva non chiederglielo. Era anche probabile che le preoccupazioni della maternità avessero bandito dalla sua mente quegli interessi quasi morbosi. Era del tutto inutile, pensava George, lambiccarsi il cervello su di un mistero che non si sarebbe mai potuto risolvere, ma a volte, nel gran silenzio della notte, si svegliava e si metteva a pensare. Ricordava il suo incontro con Jan Rodricks sulla terrazza della villa di Rupert, le poche parole che aveva scambiato col solo essere umano che fosse riuscito a sfidare la proibizione dei Superni. Non c’era cosa soprannaturale più fantastica del semplice fatto scientifico che, sebbene fossero passati quasi dieci anni dalla sera in cui George aveva parlato a Jan, quell’astronauta, ora spaventosamente lontano nello spazio, era invecchiato solo di qualche giorno. L’universo era vasto, ma quel fatto lo atterriva meno del suo mistero. George non era uomo da approfondire, ma a volte gli sembrava che gli uomini fossero come bambini ruzzanti entro la cinta di un giardino d’infanzia, protetti contro le paurose realtà del mondo esterno. Jan Rodricks si era risentito di quella protezione e si era sottratto, era fuggito, nessuno sapeva dove. Ma in questo George si schierava dalla parte dei Superni. Non desiderava affrontare ciò che si annidava nelle tenebre ignote oltre il piccolo cerchio di luce gettato dalla lampada della scienza. «Si può sapere perché» si lamentò George «Jeff è sempre fuori quando mi capita di stare in casa? Dov’è andato oggi?» Jean alzò gli occhi dal suo lavoro a maglia, un’occupazione arcaica che da qualche tempo era tornata in gran voga. Mode del genere si affermavano e scomparivano nell’isola in cicli particolarmente intensi. Conseguenza di questa moda del lavoro a maglia era che adesso tutti gli uomini della Colonia si vedevano regalare maglioni multicolori, che forse tenevano un caldo infernale durante il giorno, ma erano adattissimi dopo il tramonto. «È andato a Sparta con alcuni amici» rispose Jean. «Ma ha promesso di essere di ritorno per l’ora di pranzo.» «A dir la verità, ero venuto a casa per lavorare un po’» disse George, con aria pensierosa. «Ma è una così bella giornata che voglio uscire anche io e andare a fare un bagno. Che genere di pesce vorresti che ti portassi a casa?» George non era mai riuscito a prendere niente: i pesci della laguna erano troppo astuti per lasciarsi intrappolare. Jean stava appunto per rispondere in questo senso, quando la pace del pomeriggio fu lacerata da un suono che ebbe il potere, perfino in quell’epoca di grande tranquillità, di far gelare il sangue nelle vene. Era l’ululo della sirena, che saliva e scemava, diffondendo il suo avvertimento di pericolo in larghe onde concentriche. Da quasi un secolo, nelle buie profondità in ebollizione sotto il letto dell’oceano, le forze in azione erano lentamente aumentate. Il canyon sottomarino si era formato da molte ere geologiche, ma le rocce torturate dalla pressione non si erano mai completamente assestate. Innumerevoli volte i vari strati si erano spaccati provocando spostamenti, e l’inimmaginabile peso dell’acqua comprometteva il loro equilibrio. Adesso stavano per muoversi ancora. Jeff era intento a esplorare le rocciose grotte subacquee lungo la stretta spiaggia di Sparta, attività che egli trovava infinitamente interessante. Non sapevi mai quali esotiche creature potevi trovare, al riparo là dentro dalle onde che attraversavano di continuo le immense estensioni del Pacifico per venire a spegnersi contro le scogliere Era una specie di regno fatato per qualunque ragazzo, e in quell’istante Jeff aveva quel regno tutto per sé, dato che i suoi amici erano andati, quel giorno, a fare una gita sulle alture. Era una giornata tranquilla e serena. Non soffiava un alito di vento e perfino l’eterno mormorio gorgogliante dei marosi oltre la scogliera era sceso a un sommesso e monotono sciacquio. Un sole rutilante sfolgorava sulla metà del cielo occidentale, ma il corpo brunito di Jeff era ormai del tutto immune dai suoi attacchi. In quel punto la spiaggia era una stretta striscia di sabbia che s’inoltrava nella laguna scendendo a picco. Guardando giù nell’acqua trasparente, Jeff poteva vedere le formazioni rocciose che lui conosceva bene quanto i rilievi della terraferma. Circa dieci metri più giù, la chiglia panciuta di un antico veliero si alzava verso il mondo abbandonato circa due secoli prima. Jeff e i suoi amici avevano spesso esplorato il relitto, ma le loro speranze erano state deluse. Tutto quello che avevano riportato dalle loro esplorazioni era una bussola tutta incrostata di molluschi. Con estrema fermezza, qualcosa si impadronì della spiaggia e le dette un solo, brusco strattone. Il tremito fu così rapido e breve che Jeff ebbe il dubbio d’esserselo immaginato. Forse era stato uno stordimento momentaneo, perché tutto, intorno a lui, era rimasto immutato. Le acque della laguna erano placide, il cielo sgombero d’ogni nube, d’ogni minaccia. E ad un tratto cominciò a succedere qualcosa di molto strano. Più velocemente d’ogni moto riflesso, l’acqua retrocedeva dalla spiaggia. Jeff osservava, sbalordito ma tutt’altro che spaventato, la sabbia che appariva nuda e scintillante al sole. Si mise a seguire l’oceano che si ritraeva, risoluto a scoprire tutto quello che poteva su quel fenomeno del mondo subacqueo. Fu allora che avvertì il rumore che veniva dalla scogliera. Non aveva mai udito niente di simile prima, e si fermò per riflettere, coi piedi nudi che affondavano lentamente nella poltiglia sabbiosa. Un gran pesce guizzava nelle convulsioni dell’agonia a qualche metro di distanza, ma Jeff quasi non gli badò. Stava là ritto, teso, in ascolto, mentre il rumore della scogliera cresceva e si spandeva intorno a lui. Era un suono gorgogliante, di risucchio, come di un fiume che scorresse precipitoso in un letto stretto e profondo. Era la voce del mare che si ritirava riluttante, rabbioso di perdere, anche per un solo istante, quella terra che gli spettava di diritto. Attraverso le belle ramificazioni coralline, attraverso le segrete caverne subacquee, milioni di tonnellate d’acqua si rovesciavano dalla laguna nella vastità del Pacifico. Molto presto, rapidissime, sarebbero tornate. Una delle squadre di soccorso, alcune ore dopo, trovò Jeff su di un gran blocco di corallo che era stato scagliato una ventina di metri al disopra del normale livello d’acqua. Il ragazzo non sembrava molto spaventato, anche se lo amareggiava la perdita della bicicletta. Era soprattutto affamato, dato che la parziale distruzione della lingua di terra lo aveva imprigionato su Sparta. Quando la squadra di soccorso era arrivata, lui stava decidendosi a tornare ad Atene a nuoto e, a meno che le correnti non avessero cambiato il loro corso completamente, sarebbe senza dubbio riuscito a fare la traversata senza troppi inconvenienti. Jean e George avevano assistito a tutte le fasi del maremoto. Nelle zone più basse di Atene i danni erano stati notevoli, ma senza perdita di vite umane. I sismografi avevano potuto annunciare il fenomeno con soli quindici minuti di anticipo, ma era stato sufficiente perché tutti riparassero oltre la linea di pericolo. Ora la Colonia stava leccandosi le ferite e raccogliendo un cumulo di dicerie che col tempo sarebbero diventate leggende. Jean scoppiò in lacrime quando le fu restituito suo figlio, perché si era già convinta che fosse stato inghiottito dall’oceano. Sembrava incredibile che Jeff avesse potuto mettersi in salvo in tempo data la rapidità con cui lo «tsunami» si era abbattuto sull’isola. Ma non c’era da sorprendersi che Jeff non fosse in grado di fare un’esposizione molto razionale dell’accaduto. Dopo che ebbe mangiato e fu posto bene al sicuro sotto le coperte, Jean e George si sedettero accanto al suo letto. «Dormi ora, caro» disse Jean «e cerca di non pensarci più. Stai benissimo ora.» «Ma il buffo è, mamma» protestò Jeff «che io non mi sono spaventato per niente, in fondo.» «Molto bene» intervenne George, «Sei un bravo ragazzo ed è stata una fortuna che tu abbia avuto il buon senso di metterti in salvo tempestivamente. Avevo già sentito parlare di queste improvvise ondate di marea. Un mucchio di gente muore perché corre fuori, inoltrandosi sulla spiaggia, per vedere che cosa succede.» «E proprio quello che ho fatto io» confessò il ragazzo. «Mi domando chi è stato a salvarmi…» «Che cosa stai dicendo? Non c’era nessuno con te. Tutti gli altri ragazzi erano andati in montagna.» Jeff parve perplesso. «Eppure qualcuno mi ha detto di mettermi a correre.» Jean e George si guardarono, lievemente preoccupati. «Vuoi dire che ti è parso di sentire qualcosa?» «Oh, non stiamo a frastornarlo ora» disse Jean, un po’ troppo in fretta. Ma George era testardo. «Voglio andare in fondo alla faccenda. Dimmi tutto quello che è successo, Jeff.» «Ecco, mi trovavo proprio sulla spiaggia, presso il vecchio relitto, quando la voce ha parlato.» «Che cosa ha detto?» «Non ricordo bene, ma era qualcosa come «Jeffrey, corri su in montagna il più presto possibile. Morirai affogato, se resti qui». Sono certo che mi ha chiamato Jeffrey e non Jeff. Così che non può essere stato uno qualunque di mia conoscenza.» «Era una voce d’uomo? E da dove veniva?» «Era vicinissima a me. E si sarebbe detta quella d’un uomo…» Esitò per un attimo e George lo sollecitò: «Va’ avanti… cerca d’immaginarti d’essere ancora sulla spiaggia e dicci esattamente com’è andata.» «Ecco, non era come la voce di un uomo che io avessi già inteso prima. Doveva essere comunque un uomo molto grande.» «E non ha detto altro?» «No, fino a quando ho cominciato ad arrampicarmi sulla montagna. Allora è successa un’altra strana cosa. Conosci il sentiero che sale dalla scogliera?» «Sì.» «Salivo di corsa su per quel sentiero, perché è la strada più corta. Sapevo ora quello che stava per succedere perché avevo visto la grande ondata venire avanti, e poi faceva un fracasso enorme. A un tratto ho visto che una gran roccia mi sbarrava la strada. Non c’era mai stata… e mi sono accorto che non avevo modo di girarle intorno.» «La scossa di terremoto deve averla fatta rotolare fin là» disse George. «Ssst! continua, Jeff.» «Per un attimo non ho saputo cosa fare, e sentivo l’ondata avvicinarsi sempre di più. Poi la voce ha detto: «Chiudi gli occhi, Jeffrey, e metti le mani davanti alla faccia». Sembrava una cosa buffa da fare proprio in quel momento, però ho ubbidito. E allora c’è stato come un grande lampo… mi pareva quasi di sentirlo tutto intorno e quando ho riaperto gli occhi, la roccia non c’era più.» «Non c’era più?» «No! Scomparsa, non c’era più. Così mi sono messo a correre di nuovo ed è stato allora che mi sono quasi bruciato i piedi, tanto il terreno scottava. L’acqua si è messa a friggere quando c’è passata sopra, ma non mi ha potuto raggiungere: ormai ero salito troppo in alto. E questo è tutto. Sono tornato giù quando non c’erano più onde. Allora ho scoperto che la mia bicicletta era sparita e che la strada per tornare a casa era sprofondata.» «Non prendertela per la bicicletta, caro» disse Jean, abbracciando suo figlio col cuore pieno di gioia. «Te ne regaleremo un’altra. La sola cosa che conti è che sei salvo. Non staremo a preoccuparci su come ti sei salvato.» Non era vero, naturalmente, perché marito e moglie si consultarono appena usciti dalla stanza del ragazzo. Non giunsero a nessuna conclusione, ma la discussione ebbe due risultati. Il giorno dopo, senza dire niente a George, Jean condusse il figliolo dal neurologo della Colonia. Il medico ascoltò con grande attenzione il racconto che Jeff gli fece, per niente impressionato dal nuovo ambiente; poi, mentre nella stanza accanto il bambino osservava i giocattoli, il medico tranquillizzò Jean. «Nella scheda di vostro figlio non c’è niente che faccia sospettare una qualche anormalità psichica. Non dovete dimenticare che il ragazzo ha avuto un’esperienza spaventosa, e anzi, devo dire che ne è uscito benissimo. Jeff possiede molta immaginazione e con tutta probabilità è convinto lui stesso della sua storia. Quindi accettatela anche voi per quello che è e non preoccupatevi, a meno che in seguito non notiate altri sintomi.» Quella sera, lei raccontò al marito la diagnosi del medico, ma George non parve sollevato come lei aveva sperato. «Meglio così» brontolò a mezza voce, e subito si mise a sfogliare l’ultimo numero di «Schermo e Ribalta», come se improvvisamente la cosa non avesse interesse per lui. Jean ne fu vagamente offesa. Ma tre settimane dopo, il primo giorno in cui la strada sulla striscia di terra fu riaperta, George saltò in bicicletta e si allontanò verso Sparta. La spiaggia era ancora cosparsa di frantumi corallini, e in un punto la stessa scogliera sembrava sfondata. C’era soltanto un sentiero che si arrampicava sul fianco verticale della montagna e dopo aver ripreso fiato George cominciò a salire. Qualche frammento essiccato di alghe, impigliate tra le rocce, segnava il limite massimo raggiunto dalle acque. George Greggson rimase per molto tempo su quel sentiero deserto, a fissare la chiarezza di roccia fusa sotto i suoi piedi. Cercò di convincersi che si trattava di qualche anomalia del vulcano estinto, ma in breve abbandonò quegli inutili tentativi d’ingannare se stesso. La sua mente tornò alla notte di dieci anni prima, quando con Jean aveva partecipato alla sciocco esperimento di Rupert. Nessuno aveva mai compreso bene che cosa fosse acca-duto in quell’occasione, ma ora George capì che in qualche modo, e per motivi insondabili, quei due bizzarri eventi erano connessi. La prima volta, era stata sua moglie, ora suo figlio. George non sapeva se esserne lieto o angosciato e in cuor suo elevò una muta preghiera: «Grazie, Karellen, per quanto la tua gente ha fatto per Jeff. Ma vorrei sapere perché l’ha fatto». Ridiscese lentamente verso la spiaggia, e i grandi gabbiani candidi gli volteggiarono intorno, visibilmente seccati perché non aveva portato cibo da gettare per loro. 16 Sebbene avessero dovuto aspettarsela in qualunque momento a partire dal giorno in cui la Colonia era stata fondata, la richiesta di Karellen scoppiò come una bomba. Rappresentò una crisi nella storia di Nuova Atene, e nessuno poté capire se i risultati sarebbero stati buoni o cattivi. Fino a quel momento la Colonia aveva proseguito per la sua strada senza interferenze da parte dei Superni. Essi l’avevano lasciata del tutto tranquilla, come facevano con molte attività umane che non turbavano l’ordine e non offendevano i loro codici. Che gli scopi di Nuova Atene potessero definirsi sovversivi non era del tutto dimostrato. Non erano scopi politici, ma certo sollecitavano lo spirito di indipendenza per artisti e intellettuali. E da questo, chi sapeva cosa poteva derivare? I Superni forse erano in grado di prevedere il futuro di Nuova Atene meglio dei suoi fondatori, e poteva darsi che quel futuro non gli piacesse per nulla. Naturalmente, se Karellen desiderava inviare un osservatore, ispettore, o comunque lo si volesse chiamare, nessuno poteva farci niente. Venti anni prima i Superni avevano annunciato di avere sospeso ogni uso dei loro congegni di sorveglianza, così che l’umanità non doveva più considerarsi spiata continuamente. Tuttavia il fatto che quei congegni continuassero a esistere voleva dire che niente poteva avvenire all’insaputa dei Superni qualora essi avessero voluto veramente sapere. Ma c’era qualcuno nell’isola che era lieto di quella visita, perché offriva qualche probabilità di risolvere uno dei problemi minori della psicologia Superna: l’atteggiamento di quelle strane creature verso l’arte. La consideravano forse un’aberrazione infantile della razza umana? O avevano essi pure qualche forma d’arte? In questo caso, lo scopo della visita era semplicemente estetico? Oppure Karellen aveva scopi meno candidi? Tutti argomenti di cui si discusse all’infinito mentre fervevano intensi i preparativi per quella visita. Del Superno che avrebbe visitato la Colonia non si sapeva niente, ma si dava per scontato che potesse imparare qualsiasi cosa in quantità illimitate. Avrebbero perciò tentato l’esperimento, e un gruppo di uomini fra i più qualificati avrebbe osservato con interesse le reazioni della loro cavia. L’attuale presidente del consiglio era il filosofo Charles Yan Sen, uomo ironico, bonario, non ancora sessantenne e pertanto nel pieno vigore d’una giovanile maturità. Platone lo avrebbe approvato come l’esempio del filosofo-statista, anche se Yan Sen non approvava del tutto Platone, che lui accusava di aver grossolanamente falsato il pensiero di Socrate. Yan Sen era uno degli isolani che contavano di trarre il massimo profitto da quella visita se non altro per mostrare ai Superni che gli uomini avevano ancora spirito d’iniziativa, e non erano, per usare la sua espressione, «del tutto addomesticati». Nella Colonia ogni iniziativa faceva capo a un comitato, ultimo sopravvissuto baluardo del sistema democratico. Una volta qualcuno aveva definito Nuova Atene una catena di comitati, comunque, il sistema funzionava grazie al paziente lavoro degli psicologi che erano stati i veri fondatori della Colonia. Trattandosi di una comunità ristretta, ogni suo membro poteva partecipare alla sua amministrazione ed essere così un cittadino nel vero senso della parola. Era quasi inevitabile che George, come elemento in vista della gerarchia artistica, facesse parte del comitato di ricevimento. Se i Superni volevano studiare la Colonia, George si era reso conto di voler studiare i Superni. Cosa che non allietava troppo Jean. Fin dalla famosa sera a casa di Rupert, lei aveva nutrito una vaga ostilità verso i Superni, pur senza saperne il perché. Il Superno arrivò senza cerimonie particolari in un comune aereo di fabbricazione umana, con grande delusione di coloro che si erano aspettati qualcosa di eccezionale. Sarebbe potuto essere lo stesso Karellen, dato che nessuno era mai riuscito a distinguere un Superno dall’altro con un minimo di certezza. Parevano tutti copie di un unico modello. Forse lo erano, in virtù di qualche sconosciuto processo biologico. Dopo il primo giorno, gli isolani cessarono di prestare molta attenzione quando un’auto del consiglio passava con un lievissimo mormorio per una delle visite turistiche in programma. Il nome preciso del visitatore, Thanthalteresco, si era rivelato superiore alle possibilità di pronuncia dei più, per cui il Superno fu in breve chiamato per antonomasia «l’Ispettore». No-me abbastanza descrittivo, perché la curiosità e la fame di dati statistici dell’individuo erano inesauribili. Charles Yan Sen era del tutto sfinito, quando molto dopo la mezzanotte ebbe accompagnato l’Ispettore all’aereo, che gli serviva d’alloggio e dove, senza dubbio, avrebbe continuato a lavorare tutta la notte, mentre i suoi ospiti terrestri indulgevano a una così tipica debolezza umana come il sonno. La signora Sen accolse ansiosamente il marito al suo ritorno a casa. Erano una coppia bene affiatata, nonostante l’abitudine scherzosa di lui di chiamare la moglie Santippe quando c’erano ospiti. Lei aveva minacciato adeguate rappresaglie mediante la preparazione di una tazza di cicuta, ma per fortuna quest’erba letale era meno comune nella Nuova che nell’antica Atene. «È andato tutto bene?» domandò lei al marito, che si sedeva a tavola per consumare una cena che lo aspettava da cinque o sei ore. «Direi di sì, per quanto non si possa mai dire che cosa passa in quelle loro menti straordinarie. Ha trovato certamente tutto interessante, mi ha rivolto perfino dei complimenti. Mi sono scusato, a proposito, per non averlo invitato qui, a casa nostra. Ha risposto che comprendeva benissimo e che non aveva nessuna voglia di battere la testa contro il nostro soffitto.» «Che cosa gli hai mostrato, oggi?» «La parte amministrativa. Pare che non l’abbia trovata noiosa come capita invece a me. Ha fatto tutte le domande possibili e immaginabili sulla produzione, sul nostro bilancio, sulle risorse minerali, sul numero delle nascite, sul come provvediamo al cibo, eccetera. Per fortuna con noi c’era il segretario Harrison che si era preparato sui rapporti annuali sin dall’inizio della Colonia. Avresti dovuto sentirlo sparare dati statistici! L’Ispettore si è fatto prestare tutti gli annuari, e son pronto a scommettere che domani sarà in grado di citare a noi cifra su cifra per ogni anno. A me questo genere di spettacolo di abilità mentale fa un effetto deprimente!» Sbadigliò, prima di cominciare a mangiare. «Domani sarà una giornata più interessante. Si visitano le scuole e l’Accademia. Quando sarà la mia volta di fare qualche domanda, vorrei sapere come i Superni crescono i loro piccoli… sempre che ne abbiano, naturalmente.» Ma questa era proprio una delle domande a cui Charles Yan Sen non avrebbe mai avuto risposta, anche se su altri argomenti l’Ispettore si rivelò addirittura loquace. Sapeva evadere alle domande imbarazzanti con un garbo inimitabile, per poi, del tutto inaspettatamente, divenire addirittura confidenziale. La prima volta che ciò avvenne fu mentre si allontanavano in macchina dalla scuola, una delle grandi ragioni di orgoglio della Colonia. «È una grande responsabilità» aveva osservato il dottor Yan Sen «istruire queste giovani menti per l’avvenire. Per fortuna, gli esseri umani sono straordinariamente duttili: occorre un’educazione davvero sbagliata per arrecare guasti permanenti. Anche se i nostri fini sono errati, le nostre piccole vittime sapranno cavarsela. E, come avete visto, hanno l’aria del tutto contenta.» Fece una breve pausa, poi lanciò un’occhiata maliziosa dal sotto in su alla figura torreggiante dell’ospite. L’Ispettore era avvolto in una specie di tessuto argenteo, tutto riflessi, così che non un centimetro del suo corpo era esposto alla radiazione solare. Il dottor Sen ebbe coscienza di due grandi occhi che dietro le lenti scure lo fissavano senza emozione, o con emozioni che lui non avrebbe mai potuto capire. E riprese: «I nostri problemi nell’allevare questi ragazzi devono essere, immagino, molto simili ai vostri, quando vi trovate davanti alla razza umana.» «Sotto certi aspetti» ammise il Superno gravemente. «In altri, si potrebbe trovare una analogia forse più pertinente nella storia delle vostre potenze coloniali. Gli imperi romano e britannico, in questo campo, hanno sempre rappresentato un esempio interessante. Il caso dell’India è di particolare insegnamento. La differenza principale fra noi e gli inglesi in India sta nel fatto che essi non avevano nessun vero motivo per andare in India, nessuno scopo dettato dalla coscienza, intendo, eccettuati motivi contingenti trascurabili come interessi commerciali o rivalità con altre potenze europee. Si trovarono in possesso di un impero ancora prima di sapere che cosa farsene, e non ne hanno mai tratto felicità alcuna, se non il giorno in cui se ne sono liberati.» «E voi pure» chiese Yan Sen «vi libererete del vostro impero, quando sarà venuto il momento?» «Senza la più lieve esitazione» rispose l’Ispettore. Il dottor Sen non insistette. La pronta franchezza della risposta non era stata delle più lusinghiere; e del resto erano arrivati all’Accademia, dove i pedagoghi si erano riuniti e aspettavano di aguzzare gli ingegni su un vero Superno in carne e ossa. «Come il nostro illustre collega vi avrà riferito» disse il professor Chance, Rettore dell’Università di Nuova Atene «nostro scopo principale è mantenere la mente della popolazione sempre attiva, così che gli individui possano rendersi conto di tutte le loro possibilità. Oltre quest’isola — e il gesto di Chance parve indicare, e respingere, il resto del globo — temo che la razza umana abbia perso il suo spirito d’iniziativa. Ha pace e abbondanza… ma non ha orizzonti.» «Mentre qui, naturalmente?…» interloquì blando il Superno. Chance, che mancava di ogni senso umoristico e ne era vagamente conscio, lanciò un’occhiata sospettosa al visitatore. «Qui» riprese «non siamo affetti dall’antica ossessione che la vita comoda sia un male. Ma non ci sembra che basti il solo fatto di ricevere passivamente dall’alto lo svago e le comodità. Ognuno su questa isola ha un’ambizione, che si può riassumere in modo molto semplice: fare qualche cosa, per piccola che sia, meglio di chiunque altro. Naturalmente, è un ideale che non tutti conseguiamo. Ma nel mondo odierno la cosa importante è proprio avere un ideale. Che lo si attui o no, è molto meno importante.» L’Ispettore non parve disposto a fare commenti. Si era spogliato del suo indumento di protezione, ma aveva ancora gli occhiali neri, che sembravano essergli necessari anche nella luce attenuata della Sala Riunioni. Il Rettore pensò che forse rappresentavano una necessità fisiologica, o forse erano un semplice mascheramento mimetico. Certo rendevano ancora più difficile il compito già arduo di intuire i pensieri del Superno. Costui comunque non parve avere niente da obiettare alle dichiarazioni polemiche che gli erano state lanciate come un guanto di sfida. Il Rettore stava per rinnovare i suoi attacchi, quando il professor Sperling, capo della Sezione Scienze, pensò bene di trasformare il duello in una guerra su tre fronti. «Come senza dubbio saprete, signore, uno dei grandi problemi della nostra cultura è stato il dissidio fra arte e scienza. Mi piacerebbe conoscere il vostro pensiero sull’argomento. Approvate anche voi l’opinione che tutti gli artisti sono degli anormali? Che la loro opera, o comunque l’impulso che la genera, è conseguenza di una insoddisfazione psicologica profondamente radicata?» Chance si schiarì la voce in modo eloquente, ma l’Ispettore lo precedette. «Mi è stato detto che tutti gli uomini sono artisti fino a un certo grado, così che ognuno è capace di creare qualche cosa, sia pure a un livello rudimentale. Ieri, per esempio, visitando la vostra scuola ho osservato la insistenza sulla individualità che traspare nei disegni, nella pittura, nella scultura. Impulso che m’è parso comune a tutti, anche tra coloro chiara-mente destinati a specializzarsi nelle scienze. Così che, se tutti gli artisti sono anormali e tutti gli uomini sono artisti, il sillogismo che ci troviamo a considerare diviene di particolare interesse…» Tutti aspettarono che l’Ispettore terminasse la frase. Ma quando conveniva loro, i Superni sapevano essere pieni di tatto. L’Ispettore sopportò il concerto sinfonico con buona grazia, vale a dire meglio di molti umani presenti. L’unica concessione al gusto della maggioranza fu una sinfonia di Stravinsky, il resto del programma era composto da pezzi aggressivamente moderni. A parte i gusti personali, però, l’esibizione fu di primissimo ordine perché la dichiarazione che la Colonia possedeva un buon numero dei migliori concertisti della Terra non era una vanteria infondata. Tra i vari compositori c’era stata lotta per l’onore di comparire nel programma, anche se alcuni cinici mettevano in dubbio che fosse un onore. Per quello che se ne sapeva, i Superni potevano anche essere del tutto sordi alla musica. Si osservò, comunque, che dopo il concerto l’Ispettore volle conoscere i tre compositori presentati e si complimentò con loro per «la grande inventiva dimostrata». La frase provocò risposte compiaciute ma un po’ perplesse. Fu solo al terzo giorno che George Greggson ebbe modo di conoscere l’Ispettore. Il teatro aveva preparato una specie di fritto misto più che una sola portata di gran classe: due lavori di un atto, uno sketch rappresentato da un attore di fama mondiale e una sequenza di balletto. Ancora una volta, ogni elemento del programma fu rappresentato in modo superbo, e la previsione di un critico: «Ora almeno scopriremo se i Superni sanno sbadigliare» ebbe una clamorosa smentita. L’Ispettore infatti rise parecchie volte e sempre al punto giusto. Tuttavia… no, nessuno avrebbe potuto esserne certo, ma sembrava a volte che anche lui recitasse magnificamente una parte, seguendo la rappresentazione in virtù della sola logica, e con le sue incomprensibili emozioni completamente intatte, come un antropologo che partecipi a qualche rito primitivo. Il fatto che egli emettesse i suoni giusti e formulasse le risposte che ci si aspettava, non dimostrava niente. Sebbene fosse deciso ad avere un colloquio con l’Ispettore, George fece miseramente fiasco. Dopo lo spettacolo, i due scambiarono poche parole, subito dopo la presentazione, quindi il Superno fu portato via come da una piena. Fu del tutto impossibile isolarlo dalla sua corte, e George se ne tor-nò a casa in preda a una vera crisi di frustrazione. Aveva sperato di poter parlare con l’Ispettore a proposito di Jeff e della sua strana esperienza, e ora l’occasione era sfumata per sempre. Il suo cattivo umore durò due giorni. L’aereo dell’Ispettore si era levato in volo, fra molte dichiarazioni di reciproca stima, prima che il seguito comparisse. Nessuno aveva pensato di fare domande a Jeff, e lui ci pensò parecchio prima di risolversi a parlarne al padre. «Papà» disse una sera, poco prima di andare a letto «conosci il Superno che è venuto a visitare la Colonia?» «Sì» rispose George in tono acre. «Bene, è venuto a visitare anche la nostra scuola e io l’ho sentito parlare a qualche professore. Non ho capito bene quello che diceva… ma credo proprio di avere riconosciuto la voce: era la stessa voce che mi aveva detto di correre via presto, quando arrivò l’ondata.» «Ne sei sicuro?» Jeff esitò per un istante. «Non del tutto, ma se non è stato lui è stato di certo un altro Superno. Mi sono chiesto se non dovessi per caso ringraziarlo. Ma adesso se n’è andato, vero?» «Sì» rispose George «temo proprio che se ne sia andato. Ma può darsi che ci si offra un’altra occasione. Ora, ti prego, fa’ il bravo ragazzo, vattene a letto e non pensare più a tutte queste cose.» Quando Jeff fu al sicuro in camera sua, e a Jenny fu debitamente provveduto, Jean tornò e andò a sedersi sul tappeto accanto alla poltrona di George, appoggiandosi alle gambe di lui. Era un vezzo che lo colpì come tediosamente sentimentale, ma che non valeva la pena di una discussione. Si limitò a scostare le ginocchia quanto più possibile. «Che ne pensi, ora?» domandò a un tratto Jean con voce stanca. «Credi che la cosa sia realmente avvenuta?» «Sì, il fatto è realmente avvenuto» rispose George «ma forse è sciocco da parte nostra prendercela tanto. Dopo tutto, qualunque altra coppia di genitori sarebbe grata per quell’intervento, e naturalmente io sono gratissimo ai Superni. La spiegazione può essere straordinariamente semplice. La colonia interessa i Superni, e può darsi che la stessero spiando coi loro strumenti segreti, nonostante la loro dichiarazione, quando l’ondata si stava avvicinando.» «Ma chi ha parlato conosceva il nome di Jeff, non dimenticarlo. No, è proprio noi che i Superni sorvegliano. C’è qualcosa di particolare in noi che attira la loro attenzione. L’ho sentito fin da quella sera in casa di Rupert. È strano come quella serata abbia cambiato le nostre vite.» Dall’alto della sua poltrona George diede alla moglie un’occhiata di comprensione, ma niente di più. Incredibile, quanto una persona possa cambiare in così breve tempo. Lui le voleva molto bene, lei gli aveva dato due figli ed era una parte inalienabile della sua vita. Ma dell’amore che un uomo di nome George Greggson aveva un tempo nutrito per un sogno ormai vago chiamato Jean Morrei, quanto rimaneva? Il suo amore si divideva ora fra Jeff e Jennifer da una parte e Carolle dall’altra. Non credeva che Jean sapesse di Carolle, e intendeva dirglielo prima che lo facesse qualcun altro. Ma non era mai riuscito a entrare in argomento. «Va bene, Jeff è dunque sorvegliato, protetto: non è forse una constatazione che dovrebbe renderci fieri? Può darsi che i Superni abbiano deciso grandi cose per lui, un brillante avvenire, chi sa?» Parlava per tranquillizzare Jean, lui non era molto turbato, ma solo perplesso, sbigottito. Tutto a un tratto, però, un altro pensiero lo colpì, una supposizione che avrebbe già dovuto fare. I suoi occhi si volsero automaticamente in direzione della camera dei due bambini. «Mi domando se è soltanto di Jeff che si occupano» disse. A suo tempo l’Ispettore presentò il suo rapporto. Gli isolani avrebbero dato chi sa che cosa per poterlo vedere. Tutte le cifre statistiche e i dati andarono nelle memorie insaziabili delle grandi calcolatrici che costituivano alcuni, ma non tutti, degli invisibili poteri alle spalle di Karellen. Ancora prima, tuttavia, che questi impersonali cervelli elettronici fossero arrivati alle loro conclusioni, l’Ispettore aveva allegato il suo parere personale. Espresso in pensieri e parole umani, questo parere si sarebbe potuto riassumere così: «Non occorre prendere misure di sorta nei riguardi della Colonia. Rappresenta un esperimento interessante ma non può minimamente incidere sul futuro. I suoi tentativi artistici non ci interessano minimamente e non risulta che le ricerche scientifiche si svolgano lungo canali pericolosi. Come stabilito, ho potuto vedere i registri scolastici del Suddito Zero senza destare curiosità. Sono in proposito allegati interessanti dati statistici, e si vedrà che non si hanno ancora indizi di sviluppi insoliti. Tuttavia, come sappiamo, ben di rado fenomeni di sfondamento sono preceduti da segni molto appariscenti. Ho anche conosciuto il padre di Zero, e ho avuto l’impressione che desiderasse parlarmi. Fortunatamente, ho potuto evitarlo. Non c’è dubbio che l’uomo sospetti qualche cosa, anche se, naturalmente, non potrà mai indovinare la verità o influire, comunque, sull’esito definitivo. «Ogni giorno di più nutro sentimenti di pietà per costoro.» George Greggson si sarebbe dichiarato d’accordo sul verdetto dell’Ispettore: non c’era niente d’insolito in Jeff. C’era stato soltanto quello straordinario incidente, più impressionante di un gran colpo di tuono in una lunga e placida giornata estiva. E poi… più niente. Jeff aveva tutta l’energia e la curiosità di ogni altro bimbo di sette anni. Era intelligente, quando si dava la pena di esserlo, ma ben lontano dal pericolo di diventare un genio. A volte, pensava Jean con una certa stanchezza, impersonava perfettamente la definizione classica di un ragazzetto della sua età: «un gran fracasso entro una nube di sporcizia». Non che fosse facile assicurarsi del grado di sporcizia, dato che doveva accumularsi per più strati prima di tradirsi sull’abbronzatura di Jeff. Aveva sbalzi d’umore, questo sì, ed era di volta in volta espansivo o scontroso, riservato o esuberante. Ma anche questo rientrava nella normalità. Non dimostrava preferenza per uno o l’altro dei genitori, e l’arrivo della sorellina non aveva suscitato in lui nessuna gelosia. La sua cartella clinica era un foglio bianco: non era mai stato malato nemmeno un giorno. Ma questo non era insolito in quei giorni, e con quel clima. A differenza di altri ragazzi, Jeff non si annoiava della compagnia di suo padre e raramente lo lasciava per aggregarsi a compagni della sua età. Era evidente che aveva ereditato da George il talento e la passione artistica, e si può dire che appena imparato a camminare era diventato un assiduo frequentatore del palcoscenico del teatro di Nuova Atene. Il teatro, dal canto suo, lo aveva adottato come mascotte, e ormai Jeff era bravissimo nel presentare omaggi floreali alle celebrità teatrali e cinematografiche che visitavano la Colonia. Sì, Jeff era un ragazzo normalissimo. Così George si rinfrancò a misura che andavano a fare insieme passeggiate a piedi o in bicicletta sulla superficie angusta dell’isola. Parlavano tra loro come padre e figli hanno sempre fatto, solo che nella loro epoca non c’erano tante cose da dirsi. Sebbene Jeff non lasciasse mai l’isola, poteva vedere tutto quello che voleva del mondo circostante attraverso l’occhio onnipresente del televisore. Sentiva, come tutti gli altri abitanti della Colonia, un lieve disprezzo per il resto del genere umano. Erano loro la «élite», l’avanguardia del progresso. Sarebbero stati loro a elevare il genere umano fin sulle vette raggiunte dai Superni, e forse ancora più in alto. Non domani, certo, ma un giorno… Non avrebbero mai immaginato che quel giorno doveva venire anche troppo presto. 17 I sogni cominciarono sei settimane più tardi. Nell’ombra della notte subtropicale, George Greggson nuotava lentamente risalendo dal sonno alla coscienza. Non sapeva che cosa lo avesse destato e per qualche istante rimase coricato in un torpore di perplessità. Quindi si accorse di essere solo. Jean si era alzata e si era diretta senza fare rumore nella camera dei bambini. Ora stava parlando sommessamente con Jeff, così sommessamente, infatti, che George non riuscì a capire una parola di quello che diceva. George sgusciò a fatica dal letto e raggiunse la moglie nella stanza accanto. La sola luce era quella che emanava dai quadri fluorescenti appesi alle pareti della camera. Al loro chiarore opaco, George scorse Jean seduta ai capezzale di Jeff. Lei si volse sentendolo entrare e sussurrò: «Non svegliare la bambina.» «Che cosa è successo?» «Sapevo che Jeff aveva bisogno di me e mi sono svegliata.» La semplicità della dichiarazione con cui Jean dimostrava di accettare il fatto come normale, dette a George una stretta al cuore. «Sapevo che Jeff aveva bisogno di me». E come facevi a saperlo? avrebbe voluto chiedere a Jean. Ma si limitò a dire: «Aveva gli incubi?» «Non mi sembra» rispose Jean. «Ora ha l’aria di stare benissimo. Ma era atterrito, quando sono entrata.» «Non ero atterrito per niente, mamma» rispose la vocetta indignata del bambino. «Ma era un posto così strano!» «Che posto era?» chiese George. «Raccontami tutto.» «C’erano delle montagne» disse Jeff in tono trasognato. «Erano alte, altissime, ma non avevano neve sulla cima, come tutte le montagne alte che ho visto. E alcune di queste montagne erano in fiamme.» «Vuoi dire… che erano vulcani?» «No, non proprio vulcani. Erano completamente ricoperte di fuoco, con delle buffe fiamme azzurre. E mentre stavo guardando, si è levato il sole.» «Avanti, continua…» Jeff volse gli occhi sbigottiti verso il padre. «Ecco un’altra cosa che non capisco, papà. Il sole è sorto con una rapidità incredibile, e poi era troppo grande, era immenso! E poi… non aveva il suo vero colore: era d’un bellissimo azzurro.» Ci fu un lungo silenzio, un silenzio di ghiaccio che stringeva il cuore. Quindi George disse, in tono pacato: «È tutto qui?» «Sì. Ho cominciato a sentirmi solo e sperduto, e allora la mamma è venuta a svegliarmi.» George diede una tiratina affettuosa ai capelli scarmigliati del figlio, mentre si stringeva la cintura della veste da camera con l’altra mano. Si sentì a un tratto infreddolito, debole e inetto. Ma non c’era nessuna traccia di questo nella sua voce, quando disse a Jeff: «Non è che un sogno senza senso. Hai mangiato troppo a cena. Ora non ci pensare più e cerca di dormire, sii bravo.» «Sì, papà» rispose Jeff. Rimase in silenzio per un istante e poi aggiunse, in tono pensoso: «Forse cercherò di tornarci, in quello strano posto.» «Un sole azzurro?» disse Karellen qualche ora più tardi. «Questo deve avere facilitato inoltre l’identificazione.» «Sì» rispose Rashaverak. «Si tratta senza possibilità di dubbio di Alphanidon Due. Le Montagne Sulfuree confermano il fatto. Ed è interessante notare la distorsione della scala temporale. Il pianeta ruota sul proprio asse con notevole lentezza, per cui egli deve avere osservato un tratto di parecchie ore in qualche minuto.» «È tutto quanto siete in grado di scoprire?» «Sì, senza interrogare direttamente il bambino.» «Non possiamo osare tanto. Gli eventi devono seguire il loro corso naturale senza interferenze da parte nostra. Quando i suoi genitori verranno in contatto con noi… allora forse potremo interrogarlo.» «Possono anche non venire mai in contatto con noi. O farlo quando sarà troppo tardi.» «Temo che a questo non si possa rimediare. Non dobbiamo mai dimenticarlo: in queste cose la nostra curiosità non ha nessuna importanza. Non è più importante nemmeno della felicità del genere umano.» Alzò la mano per togliere la comunicazione. «Continuate la vostra sorveglianza, naturalmente, e riferitemi ogni risultato degno di nota. Ma ricordatevi di non interferire in nessun modo!» Eppure, da sveglio Jeff sembrava lo stesso identico ragazzetto di sempre: cosa di cui almeno, pensò George, c’era da essere grati. Ma la paura ingigantiva sempre più nel suo cuore. Per Jeff non era che un gioco: non aveva ancora nemmeno cominciato a spaventarlo. Un sogno era semplicemente un sogno, per strano che fosse. E non si sentiva più troppo solo e sperduto nei mondi che il sonno gli dischiudeva. Era stato soltanto quella prima volta, quando la sua mente aveva invocato l’aiuto di Jean varcando chi sa quali abissi misteriosi, insondabili. Ora aveva imparato ad andare solo e senza timore nell’universo che gli spalancava le porte. La mattina poi gli facevano un sacco di domande, e lui raccontava tutto quello che poteva ricordare. Talvolta le parole si accavallavano o gli mancavano, quando tentava di descrivere scene che non solo erano al di là di ogni sua esperienza, ma al di là della stessa immaginazione umana. Padre e madre gli venivano in aiuto suggerendogli parole nuove, mostrandogli fotografie a colori per stimolare la sua memoria e poi cercando loro di descrivere la scena, disegnandola in base alle sue risposte. Spesso non riuscivano però a capire niente dal risultato dei loro sforzi, per quanto sembrasse che nella mente di Jeff i mondi del suo sogno fossero ben chiari e definiti. Lui infatti sapeva benissimo com’erano, ma non riusciva a descriverli ai genitori. Eppure alcuni di quei mondi sarebbero dovuti essere comprensibili… Lo spazio soltanto, nessun pianeta, nessun paesaggio circostante, nessun mondo sotto i piedi; ma le stelle soltanto, nella notte di velluto, e sospeso sullo sfondo delle stelle un enorme sole rosso, pulsante come un cuore. Immenso e rarefatto un istante, si raggrinziva lentamente, già più fulgido, come se nuovo combustibile fosse stato gettato nelle fornaci del suo interno. Risaliva la scala dello spettro fino a sfiorare i margini del giallo, e poi il ciclo ricominciava nel senso opposto, la stella si dilatava e si raffreddava, divenendo ancora una volta una nebulosità dai contorni frastagliati, rosso fiamma. («Tipica pulsante variabile» disse Rashaverak con interesse. «Vista inoltre sotto un’enorme accelerazione temporale. Non posso identificarla con certezza, ma la stella più vicina che corrisponda alla descrizione è Rhamsanidon Nove. A meno che non sia Pharanidon Dodici.» «Qualunque sia la stella» rispose Karellen «il ragazzo si allontana sempre più dal suo mondo.» «Sempre di più» disse Rashaverak…). Sarebbe potuta essere la Terra. Un sole bianco spiccava nel cielo azzurro chiazzato di nubi che fuggivano spinte da un temporale. Un’altura digradava dolcemente verso un oceano reso schiumeggiante dal vento rabbioso. Ma tutto era immobile: la scena era come pietrificata, quasi che fosse colta dall’occhio nell’attimo di luce abbagliante di un fulmine. E lontano, molto lontano sull’orizzonte, c’era qualcosa che non apparteneva alla Terra, una fila di colonne di fumo che si assottigliavano a mano a mano che, uscite dall’acqua, salivano incontro alle nubi. Quelle colonne erano perfettamente equidistanti tra loro lungo tutto il perimetro di quel pianeta che era troppo grande per essere un mondo artificiale, eppure troppo regolare per essere naturale. («Sidenens Quattro e i Pilastri dell’Alba» disse Rashaverak, e c’era un tono di timore riverenziale nella sua voce. «Ha raggiunto il centro dell’universo.» «E ha appena cominciato il suo viaggio» rispose Karellen). Il pianeta era assolutamente piatto. La sua enorme forza di attrazione gravitazionale aveva già da gran tempo schiacciato a un livello uniforme le montagne della sua gioventù aggressiva. Era un mondo a due dimensioni, popolato da esseri che non potevano avere uno spessore maggiore d’una frazione di centimetro. Eppure c’era vita su di esso perché la sua superficie era percorsa da una miriade di disegni geometrici che si muovevano e mutavano colore. E nel cielo splendeva un sole quale soltanto un fumatore di oppio avrebbe potuto immaginare in una delle sue allucinazioni più sfrenate. Troppo caldo per essere bianco, era un fantasma lancinante, che ai confini dell’ultravioletto bruciava i suoi pianeti con radiazioni letali per ogni forma di vita. Era una stella a paragone della quale il pallido sole della Terra sarebbe stato così fioco come una lucciola nella gran luce del mezzogiorno. («Hexanerax Due, la sola stella di quel tipo in tutto l’universo conosciuto» disse Rashaverak. «Soltanto una piccola squadra delle nostre navi è potuta giungervi: e non si sono tentati atterraggi perché nessuno avrebbe potuto immaginare che la vita potesse esistere su pianeti simili.» «A quanto pare» osservò Karellen «voi scienziati non siete poi stati così scrupolosi come avevate creduto. Se quelle figure… quei disegni, potremmo dire, sono intelligenti, il problema di come entrare in comunicazione sarà molto interessante. Mi domando se abbiano il più lieve sentore della terza dimensione…»). Era un mondo che non avrebbe mai potuto avere il concetto della notte e del giorno, degli anni e delle stagioni. Sei soli variopinti si dividevano il suo cielo, così che c’era soltanto un mutamento di luce. Le tenebre non calavano mai. Tra i sussulti e gli strattoni dei campi gravitazionali contrastanti, il pianeta percorreva le curve e gli anelli annodati dalla sua orbita incredibilmente complessa, senza mai passare per lo stesso punto. Ogni momento era unico: la configurazione che in quell’istante i sei soli tracciavano nel cielo non si sarebbe più ripetuta per tutta l’eternità. E anche lì c’era vita: che importava se ai cristalli sfaccettati e raggruppati in complicate forme geometriche occorreva un millennio per completare un pensiero? L’universo era giovane, e il tempo senza fine. («Ho ripassato tutti i dati in nostro possesso» disse Rashaverak. «Non abbiamo notizia né di un mondo simile né di un simile combinazione di soli. Se esistesse in seno al nostro universo, gli astronomi lo avrebbero scoperto, anche se si trovasse al di là del raggio di azione delle nostre astronavi.» «Allora significa che il ragazzo è uscito dalla Via Lattea.» «Appunto. L’evento non può tardare più, ormai.» «Chi lo sa? Il ragazzo si limita a sognare. Quando si sveglia è sempre lo stesso. Siamo ancora nella prima fase. Sapremo presto quando il cambiamento avrà inizio»). «Noi ci siamo già conosciuti, signor Greggson» disse gravemente il Superno. «Mi chiamo Rashaverak. Credo che vi ricordiate di me.» «Certo» disse George «ci siamo conosciuti a una festa in casa di Rupert Boyce. Non dimentico facilmente. E poi ero sicuro che ci saremmo incontrati di nuovo.» «Ditemi, perché avete voluto questo colloquio?» «Credo che lo sappiate già.» «Può darsi. Ma gioverà a entrambi, se vorrete esprimervi con le vostre parole. Può darsi che vi sorprenda, ma anch’io cerco di capire, e sotto molti riguardi la mia ignoranza è profonda quanto la vostra.» George guardò il Superno con espressione sbalordita. Ecco un’idea che non gli era mai passata per la testa. Aveva sempre inconsciamente presunto che i Superni avessero ogni sapere e ogni potere e che comprendessero le cose che erano accadute a Jeff e ne fossero, probabilmente, causa. «Immagino» disse George «che abbiate visto i rapporti che ho fatto allo psichiatra dell’isola e siate perciò al corrente dei sogni. Non ho mai creduto che fossero dovuti alla immaginazione di un bambino. Sono talmente incredibili che, per quanto possa sembrare ridicolo, dovevano basarsi su qualche realtà.» Guardò ansiosamente Rashaverak, non sapendo se sperare una conferma o una smentita. Il Superno non disse niente, ma si limitò a guardarlo coi suoi grandi occhi placidi. «Ci siamo stupiti in un primo momento» riprese George «ma non proprio allarmati. Jeff sembrava perfettamente normale quando si svegliava, e i suoi sogni parevano preoccuparlo. Poi, una notte» esitò, e guardò con espressione cauta il Superno «una notte… non ho mai creduto nel soprannaturale, devo dire, non sono scienziato, ma penso che debba esserci una spiegazione razionale per ogni specie di fenomeno…» «C’è» disse Rashaverak. «So quello che avete visto: stavo osservando.» «L’ho sempre sospettato. Ma Karellen aveva promesso che non ci avreste spiati coi vostri strumenti speciali. Perché non è stata mantenuta la promessa?» «Non sono stato io a romperla. Il Supercontrollore disse che la razza umana non sarebbe più stata sotto sorveglianza. La promessa è stata mantenuta. Io sorvegliavo i vostri figli, non voi.» Occorsero alcuni secondi prima che George intendesse il sottinteso della risposta di Rashaverak. E si fece mortalmente pallido. «Volete dire…?» ansimò. La voce gli si spense e dovette ricominciare da capo. «Ma dunque che cosa sono, in nome di Dio, i miei figli?» «È proprio quello che stiamo cercando di scoprire» rispose Rashaverak solennemente. Jennifer Anne Greggson, più nota in famiglia col nome di Bambola, giaceva supina con gli occhi strettamente chiusi. Da tanto tempo li teneva chiusi e non li avrebbe mai più riaperti, perché adesso la vista le era superflua come alle multisensoriali creature delle profondità oceaniche, dove non c’era luce. Lei si rendeva conto di ciò che la circondava e sapeva e si rendeva conto di infinite altre cose. Un solo riflesso le rimaneva della sua breve infanzia, per qualche inesplicabile anomalia di sviluppo. Il suono tamburellante del sonaglio, che un tempo la divertiva tanto, batteva ora un ritmo complesso e mutevole nel suo lettino. Era quella strana serie di suoni sincopati che aveva destato Jean, spingendola a correre d’urgenza nella camera accanto. Ma non era stato soltanto quel suono che l’aveva indotta a chiamare, urlando, George. Era stata la vista di quel comunissimo sonaglio variopinto che bubbolava alto e solitario nel vuoto, a mezzo metro almeno da qualunque sostegno, mentre Jennifer Anne, le dita grassocce strettamente incrociate, se ne stava distesa con un sorriso di placida contentezza. Aveva ricominciato più tardi, ma progrediva con grande rapidità. In breve avrebbe superato il fratello, dato che aveva molto meno di lui da imparare. «Avete fatto bene» disse Rashaverak «a non toccare il suo giocattolo. Non credo, comunque, che avreste potuto muoverlo. Ma se vi foste riuscito, la bimba avrebbe potuto soffrirne. E in questo caso non so che cosa sarebbe potuto accadere.» «Intendete dire» osservò George in tono lugubre «che non potete far niente?» «Non voglio illudervi. Possiamo osservare e studiare, come già stiamo facendo. Ma non possiamo interferire, perché non possiamo capire.» «Allora che cosa dobbiamo fare? E perché questo genere di fenomeni doveva capitare proprio a noi?» «A qualcuno doveva pur capitare. Non c’è niente di eccezionale in voi, come non c’è niente di eccezionale nel primo neutrone che inizia la catena a reazione di una bomba atomica. È il fenomeno che noi chiamiamo Sfondamento Totale. Attendevamo che il fenomeno si verificasse fin da quando siamo venuti su questo pianeta. Non c’era modo di prevedere quando e dove avrebbe avuto inizio… fino al giorno in cui, per pura combinazione, ci siamo incontrati alla festa di Rupert Boyce. Fu allora che seppi, con certezza quasi assoluta, che i bambini di vostra moglie sarebbero stati i primi.» «Ma noi non eravamo ancora… sposati allora. Non avevamo nemmeno…» «Sì, lo so. Ma la mente della signorina Morrei fu il canale per cui, sia pure per un solo istante, furono comunicate cose che nessuna creatura al mondo, in quel tempo, era in grado di sapere. La comunicazione non poteva che venire da un’altra mente, connessa in modo inseparabile dalla sua. Il fatto che fosse una mente ancora a venire non aveva nessuna importanza, dato che il Tempo è molto più strano di quanto possiate immaginare.» «Comincio a capire. Jeff conosce queste cose… può vedere altri mondi e dire da dove venite. E in qualche modo Jean ha captato i suoi pensieri ancora prima che il bambino nascesse.» «Si tratta di ben altro che questo, ma non credo che voi potrete mai avvicinarvi molto di più alla verità. Sempre, in ogni epoca della storia, sono nate persone dotate di poteri inesplicabili che sembrano trascendere lo spazio e il tempo. Non sono mai stati capiti: quasi senza eccezione, le spiegazioni che si è tentato di darne non erano che sciocchezze. Io lo so. Ne ho lette una infinità. Ma c’è un’analogia, che è… sì, istruttiva ed efficace. Non fa che ricorrere in tutta la vostra letteratura. Immaginate che la mente di ogni uomo sia un’isola, circondata dall’oceano. Ognuna sembra appartata, del tutto avulsa dal resto, ma in realtà sono tutte collegate fra loro dal fondo roccioso da cui sono sorte. Se l’oceano dovesse svanire, ciò segnerebbe la fine delle isole in quanto isole. Farebbero tutte parte di un solo continente, ma la loro individualità sarebbe scomparsa. La telepatia, come voi uomini l’avete chiamata, è qualche cosa di simile. In circostanze favorevoli, le menti possono fondersi l’una nell’altra e scambiarsi il reciproco contenuto, per poi riportare il ricordo del fenomeno, quando siano di nuovo isolate. Nella sua forma più elevata, questo potere non è soggetto alle solite limitazioni dello spazio e del tempo. Ecco perché Jean poté attingere alle cognizioni del figlio non ancora nato.» Seguì un lungo silenzio mentre George lottava con questi concetti sconcertanti. Il quadro cominciava a delinearsi. Era un quadro incredibile, inconcepibile, ma che possedeva una sua logica e che spiegava, se si può usare questo vocabolo per qualcosa di incomprensibile, spiegava tutto quello che era accaduto da quella serata in casa di Rupert. E George si rese conto che dava un senso anche all’interesse di Jean per la metapsichica. «Che cosa ha messo in moto questo meccanismo?» chiese George. «E dove porta?» «È una domanda a cui non sappiamo dare risposta. Ma ci sono molte razze nell’universo, e alcune di esse hanno scoperto questi poteri gran tempo avanti che la vostra specie, o la mia, comparissero sulla scena. Hanno atteso che la raggiungeste e ora sembra venuto il momento.» «E voi, come entrate nel quadro?» «Probabilmente, come la stragrande maggioranza degli uomini, anche voi ci avete sempre considerato i vostri padroni. Non è vero. Non siamo stati che dei tutori che adempivano a un dovere impostoci… dall’alto. Do-vere alquanto difficile da definire. Forse, vi converrebbe pensare a noi come a levatrici intente a un parto difficile. Noi contribuiamo a far venire alla luce qualcosa di nuovo e meraviglioso.» Rashaverak esitò. Per un attimo parve incapace di trovare le parole adatte. «Sì, noi siamo le ostetriche. Ma siamo, anche, sterili.» In quell’attimo George comprese di trovarsi alla presenza di una tragedia che trascendeva perfino la sua. Era incredibile e tuttavia giusto, in un certo senso. Nonostante tutti i loro poteri e la loro intelligenza, i Superni erano rimasti imbottigliati in un ramo senza lo sbocco dell’evoluzione. Una grande e nobile razza, superiore in ogni cosa al genere umano, e che tuttavia non aveva avvenire e lo sapeva. Di fronte a tutto ciò, gli stessi problemi di George divenivano insignificanti. «Ora capisco» disse «perché tenevate tanto d’occhio mio figlio: era la cavia di questo particolare esperimento.» «Precisamente. Sebbene l’esperimento sia al di là del nostro controllo. Non siamo stati noi ad avviarlo… noi abbiamo soltanto cercato di osservarlo. Non siamo mai intervenuti se non quando dovevamo farlo.» «Già» pensò George «la grande ondata d’alta marea. Non avreste mai permesso che scomparisse un esemplare di tanto valore.» Poi si vergognò di sé: la sua amarezza era ingiusta e non risolveva niente. «Permettetemi di farvi un’altra sola domanda» disse. «Che cosa dovremo fare dei nostri figli?» «Godeteveli finché potrete» rispose Rashaverak dolcemente. «Non resteranno vostri molto a lungo.» Consiglio che si sarebbe potuto dare a qualunque padre in qualunque epoca della storia: ma che ora sembrava contenere una minaccia e un terrore mai avuti prima. 18 E venne per Jeffrey il tempo in cui il mondo dei suoi sogni non fu più nettamente distinto dall’esistenza quotidiana. Non andava più a scuola e anche per Jean e George il sereno corso della loro vita fu sconvolto, così come lo sarebbe stato tra breve per tutto il pianeta. Avevano cominciato a evitare i loro amici, come se fossero consci che presto nessuno avrebbe più avuto comprensione e compassione da dare agli altri. A volte, nella quiete della notte, quando c’era poca gente in giro, facevano lunghe passeggiate insieme. Erano più uniti adesso di quanto lo fossero mai più stati dopo i primi giorni di matrimonio. La tragedia di cui non erano ancora consapevoli e che fra poco li avrebbe travolti, li aveva riuniti. All’inizio avevano provato quasi un senso di colpa a lasciare soli in casa i bambini addormentati, ma avevano finito per accorgersi che Jeff e Jenny erano in grado di badare a se stessi in un modo che sfuggiva alla loro comprensione. E poi, naturalmente, c’erano i Superni a sorvegliarli. Pensiero rassicurante, perché così George e Jean sentivano di non essere soli col loro problema assillante. Occhi vigili e amichevoli condividevano la loro attesa. Jennifer dormiva: non c’era altra parola per descrivere lo stato in cui era entrata. Dal punto di vista dell’aspetto esteriore, era ancora in tutto e per tutto una bimba, ma aveva intorno come un alone di poteri latenti così terrificante che Jean non sapeva più risolversi a metter piede nella camera dei bambini. Né ce n’era bisogno. L’entità che era stata Jennifer Anne Greggson non era ancora pienamente sviluppata, ma anche nel suo dormiente stato di crisalide aveva già un tale dominio del suo ambiente da essere autosufficiente. Jean aveva tentato una volta di darle da mangiare, ma senza successo. Jennifer sceglieva lei il momento in cui nutrirsi, e il modo di farlo. Infatti le vivande si dissolvevano nella ghiacciaia secondo un flusso lento e costante: ma Jennifer Anne non si muoveva mai dal suo lettino. Il suono monocorde del sonaglio era cessato, e il giocattolo giaceva sul pavimento: nessuno osava toccarlo nel timore che Jennifer Anne potesse averne ancora bisogno. Qualche volta lei disponeva mobili e soprammobili secondo una bizzarra logica, e a George sembrava che i quadri fluorescenti fossero diventati più luminosi. Non dava nessuna noia: era al di là d’ogni loro possibilità di accudire a lei, al di là del loro amore. Non poteva durare ancora a lungo, era chiaro, e nel poco tempo che restava ancora, Jean e George si aggrapparono disperatamente a Jeff. Ma anche Jeff stava cambiando. Però li conosceva ancora. Il ragazzetto, la cui crescita loro avevano ansiosamente seguito fin dalle prime informi nebbie dell’infanzia, stava perdendo la sua personalità, dissolvendosi d’ora in ora sotto i loro occhi. Ma parlava ancora con loro, come aveva sempre fatto, parlava dei suoi giocattoli e dei suoi compagni, quasi ignorasse ciò che l’avvenire gli riserbava. Tuttavia la maggior parte del tempo non li ve-deva nemmeno, non mostrava di essere nemmeno consapevole della loro presenza. Non dormiva più, come invece erano costretti a fare i suoi genitori, nonostante la loro prepotente necessità di perdere il minor numero possibile di quelle ultime ore. Diversamente da Jenny, Jeff non sembrava possedere poteri paranormali sugli oggetti fisici, forse perché, essendo già parzialmente cresciuto, ne aveva meno bisogno. La sua stranezza consisteva interamente nella vita mentale, di cui i suoi sogni erano soltanto una piccola parte. Rimaneva immobile per ore e ore, gli occhi chiusi strettamente, come in ascolto di qualcosa che nessun altro poteva udire. Entro la sua mente fluiva ininterrotta la conoscenza, da chi sa quale luogo e tempo, una conoscenza che in breve avrebbe sopraffatto e distrutto la creatura semiformata che era stata Jeffrey Angus Greggson. E Fey se ne stava seduta a guardare, levando su di lui gli occhi tristi, sbigottiti, chiedendosi dove fosse andato il suo padroncino e quando sarebbe tornato a lei. Jeff e Jenny erano stati i primi di tutto il pianeta, ma non passò molto tempo che non furono più soli. Come un’epidemia che si diffonda fulminea da un continente all’altro, la metamorfosi contagiò l’intera razza umana. Non toccò praticamente nessuno al disopra dei dieci anni, mentre nessuno, praticamente, al disotto di quell’età sfuggì. Fu la fine della civiltà, la fine di tutto quello che gli uomini avevano realizzato dall’inizio del tempo. In pochi giorni l’umanità si vide negato il futuro, perché quando a tutto un popolo vengono portati via i bambini, si distrugge il cuore della razza e si annienta la volontà di sopravvivere. Ma non ci fu panico come sarebbe successo invece un secolo prima. Il mondo rimase tramortito, le grandi città piombarono nell’immobilità e nel silenzio. Solo le industrie di importanza vitale continuarono a funzionare. Fu come se tutto il pianeta fosse in lutto, e piangesse ciò che, adesso, non avrebbe più potuto avere. Allora, come aveva già fatto una volta in un’epoca ormai dimenticata, Karellen parlò per l’ultima volta al genere umano. 19 «La mia opera qui volge al suo termine» disse la voce di Karellen da milioni di apparecchi radio. «Finalmente, dopo un secolo, posso dirvi qual era. «Sono molte le cose che abbiamo dovuto nascondervi, così come abbiamo dovuto tenerci nascosti per metà della nostra permanenza sulla Terra. So che alcuni di voi hanno ritenuto inutile questa precauzione. Ora siete abituati alla nostra presenza: non potete nemmeno più immaginare quale sarebbe stata la reazione dei vostri antenati nei nostri riguardi. Ma almeno potete comprendere lo scopo per cui siamo rimasti nascosti e sapete che avevamo una ragione per quello che abbiamo fatto. «Il segreto supremo che abbiamo dovuto mantenere nei vostri riguardi era lo scopo per cui siamo venuti sulla Terra, quello scopo su cui avete fatto tante disperate supposizioni. Non abbiamo potuto dirvelo prima d’ora, perché si trattava di un segreto che non ci apparteneva. «Un secolo fa siamo venuti sul vostro mondo a salvarvi dall’autodistruzione. Non penso che qualcuno neghi il fatto, ma nessuno ha mai immaginato di quale autodistruzione si trattasse. «Noi abbiamo messo al bando le armi nucleari e tutti gli altri congegni mortali che stavate accumulando nei vostri depositi di armi, e con questo fu annullato il pericolo della distruzione fisica. Voi pensavate che fosse l’unico pericolo, e noi volevamo che lo credeste. Ma non era vero. Il pericolo peggiore che vi minacciava era di tutt’altro genere, e non riguardava soltanto la vostra razza. «Numerosi mondi sono arrivati al punto critico provocato dalla potenza nucleare, hanno evitato il disastro, sono riusciti a edificare civiltà basate sulla pace, eppure sono stati ugualmente distrutti da forze che essi ignoravano. Nel ventesimo secolo voi avevate cominciato a immischiarvi seriamente con queste forze. Ecco perché è stato necessario intervenire. «In tutto il secolo la razza umana si è lentamente avvicinata sempre più all’abisso di cui non sospettava l’esistenza. Sopra quell’abisso c’è un unico ponte. Poche razze l’hanno trovato senza aiuto. Alcune hanno fatto marcia indietro quando erano ancora in tempo, evitando così e il pericolo e il successo. I loro mondi sono diventati isole placide che non hanno più parte nella storia dell’universo. Ma voi non avreste avuto questo destino né questa fortuna. La vostra razza era troppo vivace per arrivare a una simile soluzione, sarebbe quindi piombata nella rovina trascinando altri con sé, perché voi non avreste mai trovato quel ponte. «Temo che dovrò ricorrere a molte analogie per dire quello che devo comunicarvi. Voi non avete parole né concetti per esprimere ciò che vi dirò, e del resto anche la nostra conoscenza di certe cose è imperfetta. «Per comprendere, dovrete tornare nel lontano passato e ritrovare gran parte di ciò che i vostri antenati avrebbero riconosciuto come familiare, ma che voi avete dimenticato, anche perché noi abbiamo largamente contribuito a farvelo dimenticare. Infatti tutta la nostra permanenza qui sul vostro pianeta si è basata su di un vasto inganno, l’occultamento di verità che non eravate preparati ad affrontare. Nei secoli che precedettero il nostro arrivo, i vostri scienziati avevano scoperto i segreti del mondo fisico conducendovi dall’energia del vapore all’energia dell’atomo. Voi dimenticaste le antiche superstizioni: la scienza era diventata l’unica vera religione della razza umana. Era stato il regalo del mondo occidentale al resto della Terra e aveva distrutto ogni altra fede. Quelle che ancora sopravvivevano quando arrivammo noi stavano però agonizzando. Gli uomini sentivano che la scienza poteva spiegare tutto, che nessuna forza esulava dal suo campo d’azione e che ogni avvenimento poteva essere razionalizzato scientificamente. Forse nessuno avrebbe mai scoperto le origini dell’universo, ma tutto quello che era successo dopo ricadeva sotto le leggi della fisica. «Eppure i vostri mistici, per quanto smarriti nelle proprie delusioni, avevano intravisto la verità. Ci sono poteri al di là della mente che la vostra scienza non avrebbe mai potuto portare entro il suo dominio senza distruggerli del tutto. Attraverso i secoli ci sono stati innumerevoli rapporti di fenomeni bizzarri, quali la telepatia, la preveggenza, lo spiritismo, ai quali avevate dato un nome ma non una spiegazione. All’inizio la scienza li ignorò, negò perfino la loro esistenza nonostante i millenni di testimonianze. Ma quei fenomeni esistono, e dirò di più: ogni teoria sull’universo deve tenerne conto. «Durante la prima metà del ventesimo secolo alcuni scienziati hanno cominciato ricerche in questo campo. Non lo sapevano, ma stavano gingillandosi con la serratura del vaso di Pandora. Le forze che avrebbero potuto scatenare superavano tutti i pericoli dell’atomo, perché se i fisici avrebbero potuto distruggere la Terra, i parafisici potevano portare il caos tra le stelle. «Non si poteva permetterlo. Non so spiegare a fondo la natura della minaccia che voi rappresentavate. Forse non era una minaccia per noi e perciò noi non la comprendiamo. Diremo che minacciavate di diventare una specie di cancro telepatico, una mente malata che nel suo inevitabile disfacimento poteva avvelenare altre più grandi menti. «Ecco perché siamo venuti… perché siamo stati mandati sulla Terra. Abbiamo interrotto il vostro sviluppo su ogni livello culturale, ma in parti-colare abbiamo messo sotto controllo ogni seria ricerca nel campo dei fenomeni paranormali. Mi rendo perfettamente conto del fatto che abbiamo anche inibito, attraverso il contrasto fra le nostre civiltà, ogni altra forma di attività creatrice. Ma questo era un effetto secondario e non ha una vera importanza. «Ora dovrò dirvi una cosa che potrà sembrarvi sorprendente, quasi incredibile. Tutte queste potenzialità, questi poteri latenti, noi non li abbiamo e non li comprendiamo. I nostri cervelli sono più potenti dei vostri, ma nella vostra mente c’è qualcosa che è sempre sfuggito all’analisi. Fin da quando siamo venuti sulla Terra vi abbiamo sempre studiati, abbiamo imparato molto e impareremo ancora di più, ma non credo che riusciremo mai ad afferrare tutta la verità. Le nostre razze hanno molto in comune, ecco perché siamo stati scelti per questo compito. Ma sotto altri aspetti rappresentiamo il punto di arrivo di due evoluzioni diverse. Le nostre menti hanno raggiunto la fine del loro sviluppo. Come hanno fatto, nella loro forma presente, le vostre. Tuttavia, voi potete fare il balzo verso il prossimo stadio, e qui sta la differenza tra noi. Il nostro potenziale è esaurito, mentre il vostro è ancora intatto. È connesso, in modo che ci sfugge, ai poteri di cui vi ho parlato, gli stessi che si stanno destando ora sul vostro pianeta. «Noi abbiamo per così dire tenuto indietro l’orologio, vi abbiamo fatto segnare il passo mentre questi poteri si sviluppavano, in attesa che fossero pronti ad affluire lungo i canali che erano stati preparati per loro. Ciò che abbiamo fatto per migliorare il vostro pianeta, per elevare il vostro tenore di vita, per portare pace e giustizia, l’avremmo fatto comunque una volta costretti a intervenire nei vostri confronti. Ma tutta questa immensa trasformazione vi ha distratti dalla verità, e ci ha aiutato a servire il nostro scopo. «Non siamo più i vostri tutori. Spesso vi sarete chiesti quale posto la mia razza occupi nella gerarchia dell’universo. Come noi siamo su un gradino al di sopra del vostro, così c’è qualcosa al disopra di noi, qualcosa che si serve di noi per i suoi fini. Non siamo mai riusciti a scoprire che cosa sia, anche se siamo suoi strumenti da epoche immemorabili e se non osiamo disobbedire. Innumerevoli volte abbiamo ricevuto ordini precisi e siamo andati su mondi ancora ai primordi del loro fiorire per guidarli sulla via che noi non potremo mai seguire: la strada sulla quale vi siete ora incamminati voi. «Abbiamo studiato e ristudiato il processo che siamo stati mandati a controllare e proteggere, con la speranza di imparare come liberarci dalle limitazioni che ci imbrigliano. Ma abbiamo colto solo i contorni vaghi della verità. «Voi ci avete chiamati i Superni, senza sapere quanta ironia c’è in questo titolo. Al di sopra di noi c’è la Supermente, che ci usa come il vasaio utilizza la sua ruota. E la vostra specie è l’argilla che viene foggiata su quella ruota. «Noi crediamo, ma è solo una supposizione, che la Supermente stia tentando di accrescersi, di estendere i suoi poteri e la sua coscienza dell’universo. Ora deve essere già la somma di molte razze e già da gran tempo si è lasciata alle spalle la tirannide della materia. È conscia dell’intelligenza, ovunque si trovi. Quando seppe che eravate quasi pronti, ci ha mandato qui a fare il suo volere, a prepararvi per la trasformazione che è in atto. «I mutamenti per i quali è passata la vostra razza hanno richiesto ere innumerevoli. Ma questa è una trasformazione della mente, non del corpo. Dal punto di vista delle leggi evolutive, sarà cataclismica, istantanea. È già cominciata. Voi dovete affrontare questa realtà; la vostra è l’ultima generazione dell’Homo Sapiens. «In quanto alla natura di questo cambiamento, possiamo dirvi poco. Non sappiamo come si produce, quale molla la Supermente faccia scattare quando ritiene che sia venuto il momento. Abbiamo scoperto soltanto che il mutamento comincia in un individuo singolo, sempre un bambino, e poi dilaga come l’onda d’urto di un’esplosione, come una formazione cristallina attorno al primo nucleo immerso in una soluzione apposita. Gli adulti non vengono contagiati perché le loro menti sono già foggiate in maniera inalterabile. «Fra pochi anni sarà tutto finito, e la razza umana si sarà divisa in due. Il mondo che voi conoscete non potrà tornare indietro e non avrà un futuro. Tutte le speranze e tutti i sogni della vostra razza sono ormai consumati. Voi avete dato la vita ai vostri successori, e che non possiate mai capirli, mai comunicare con le loro menti, è la vostra tragedia. Infatti, non avranno menti quali voi conoscete. Saranno come una singola entità, così come voi siete le somme delle vostre miriadi di cellule. Non li riterrete umani e avrete ragione. «Vi ho detto queste cose perché sappiate ciò che vi attende. Tra poche ore la crisi sarà su di noi. Mio compito e mio dovere è di proteggere coloro che sono stato mandato qui a tutelare. Nonostante i loro poteri che si risvegliano, potrebbero essere distrutti dalle moltitudini che li circondano… sì, dai loro stessi genitori, quando si renderanno conto della verità. Devo condurli via, isolarli, a loro e vostra protezione. Domani le mie navi cominceranno l’evacuazione. Non vi biasimerò, se tenterete di intervenire, ma vi avverto che sarà inutile. Poteri di gran lunga superiori ai miei si stanno svegliando; io non sono che uno dei loro strumenti. «Dopo di che… che dovrò fare di voi, i superstiti, quando il vostro fine sia stato raggiunto? Sarebbe più semplice, forse, e più misericordioso, distruggervi, come voi distruggereste un vostro cagnolino ferito mortalmente. Ma non è cosa che io possa fare. Il vostro avvenire, starà a voi deciderlo. Io spero che l’umanità passi il resto della sua vita in pace, con la coscienza di non aver vissuto invano. «Ciò che avete generato potrà essere sconcertante ed estraneo a voi, potrà non condividere i vostri desideri e le vostre speranze, potrà anche considerare le vostre maggiori conquiste come giochi infantili, ma sarà qualcosa di meraviglioso. E sarete stati voi a crearlo. «Quando la nostra razza sarà dimenticata, parte della vostra sarà ancora in vita. Non vogliate pertanto condannarci per quello che siamo stati costretti a fare. E ricordate: noi vi invidieremo sempre.» 20 Jean aveva pianto in quegli ultimi giorni, ma adesso non piangeva. L’isola si stendeva tutta di oro nella spietata luce insensibile, mentre l’astronave giungeva lentamente in vista al di sopra dei picchi gemelli di Sparta. Su quell’isola rocciosa, non molto tempo prima suo figlio era sfuggito alla morte grazie a un miracolo che ora Jean comprendeva anche troppo. Alle volte, si era perfino chiesta se non sarebbe stato meglio che i Superni se ne fossero rimasti in disparte, abbandonando Jeff al suo destino. Non un suono, non il minimo gesto da parte dei fanciulli. Se ne stavano in gruppi sparsi lungo tutta la spiaggia, non rivelando un maggior interesse l’uno per l’altro di quello che mostravano per le cose che stavano abbandonando per sempre. Molti avevano in collo bimbi troppo piccoli ancora per camminare, o che non volevano esercitare quei poteri che rendevano inutile la necessità di camminare. Perché, pensò George, se potevano muovere la materia inanimata, potevano ben muovere i propri corpi. Perché infatti i Superni si prendevano addirittura la briga di raccoglierli sulle loro astronavi? Ma tutto ciò non aveva importanza. I loro figli se ne andavano ed era co-sì che avevano deciso di andarsene. E in quel momento George ricordò, di colpo, quello che gli aveva tormentato la memoria. Molto tempo prima, non ricordava più dove, aveva visto un documentario vecchio di un secolo. Il documentario di un esodo simile. Doveva essere all’inizio della prima guerra mondiale, o forse della seconda. Vi erano lunghe file di treni, tutti affollati di bambini, che uscivano lentamente dalle stazioni delle grandi città minacciate dalla guerra, lasciando là i genitori che molti di quei bambini non avrebbero più rivisto. Alcuni piangevano, altri erano disorientati e trafficavano, confusi, con i loro bagagli. Ma i più sembravano guardare al domani come a una grande avventura da vivere. Però l’analogia aveva qualcosa di stonato. La storia non si ripete mai. Quelli che stavano partendo adesso non erano più bambini. E questa volta non ci sarebbe stato ritorno. L’astronave era atterrata là dove le onde morivano, affondando profondamente nella sabbia inzuppata di acqua. In perfetto sincronismo, i grandi pannelli ricurvi si sollevarono e le passerelle scattarono verso la spiaggia come lingue metalliche. Le sparse figurette, Dio quanto tristi e solitarie! cominciarono a convergere per raccogliersi in una turba che si pose ad avanzare, esattamente come farebbe una turba umana. Tristi e solitarie? Perché un simile pensiero? si domandò George. Questa era la sola cosa che essi non sarebbero stati mai più. Soltanto degli individui possono essere tristi, soltanto degli esseri umani. Senti la mano di Jean accrescere la stretta sulla sua in un brusco spasimo di commozione. «Guarda» sussurrò Jean. «Io riesco a vedere Jeff. Vicino a quel secondo portello.» La distanza era molta, e non si poteva essere sicuri, e poi George aveva un velo davanti agli occhi che gli impediva di vedere bene. Ma sì… era Jeff, adesso ne era certo. George adesso poteva riconoscere suo figlio che aveva già posato un piede sul piano metallico. E Jeff si volse a guardare indietro. La sua faccia era solo una chiazza bianca: a quella distanza era impossibile dire se esprimeva qualche sentimento, se li riconosceva, se ricordava tutto ciò che stava abbandonando. Né George avrebbe mai saputo se Jeff si era voltato verso di loro per puro caso, e se, in quegli ultimi istanti in cui era ancora il loro figlio, sapeva che lo stavano guardando passare in un mondo dove loro non sarebbero mai entrati. I grandi portelli cominciarono a chiudersi. E in quell’istante Fey levò in alto il muso e lanciò un lungo lamento, desolato, sommesso. Volse poi i begli occhi limpidi verso George, e lui capì che in quel momento Fey aveva perduto il suo padroncino. George non aveva più rivali ora. Per quelli che erano rimasti c’erano molte strade ma una sola destinazione. Qualcuno disse: «Il mondo è ancora bello! Un giorno dovremo lasciarlo, ma perché anticipare la partenza?» Ma altri, che avevano puntato più sul futuro che sul presente e che avevano perso tutto quello che rendeva la loro vita meritevole di essere vissuta, non desideravano più vivere. Questi decisero di andarsene dal mondo e lo fecero, o soli o coi loro amici, a seconda del carattere. Fu così anche per Nuova Atene. L’isola era nata dal fuoco e scelse di morire nel fuoco. Coloro che preferirono andarsene se ne andarono, ma molti rimasero e finirono in mezzo ai resti dei loro sogni spezzati. Nessuno poteva sapere quando sarebbe venuto il momento, eppure Jean si svegliò nel silenzio della notte e rimase un momento immobile a guardare la chiara macchia spettrale del soffitto. Poi allungò un braccio per afferrare la mano di George. Lui di solito aveva il sonno pesante, ma questa volta si svegliò subito. Non parlarono perché non esistevano parole per esprimere ciò che avrebbero voluto dire. Jean non aveva più paura, non era nemmeno triste. Era giunta finalmente, attraverso la tempesta, ad acque calme, e l’emozione non aveva ormai più presa alcuna su di lei. Ma restava una cosa da fare e lei sapeva che c’era appena tempo. Sempre in silenzio, George la seguì per la casa in cui regnava una pace solenne. Attraversarono il fascio di luce lunare che pioveva dal lucernario dello studio, movendosi lentamente insieme con le loro ombre, ed entrarono nella camera che era appartenuta ai loro cari bambini. Non era cambiato niente. Alle pareti luccicavano ancora i quadri fluorescenti che George aveva dipinto con tanta cura. E il sonaglio, che era appartenuto a Jennifer, stava ancora sul pavimento dove lei lo aveva lasciato cadere quando la sua mente si era rivolta alle inconoscibili lontananze dove viveva adesso. Lei, s’è lasciata dietro i suoi balocchi, pensò George, ma i nostri camminano con noi. Pensò ai bambini dei Faraoni, che cinquemila anni prima venivano sepolti con le loro bambole e i loro monili. Sarebbe stato ancora così. Nessun altro dovrà amare i nostri tesori, si disse, noi ce li porteremo via e non ci separeremo mai da loro. Lentamente Jean si voltò verso di lui e gli posò la testa su una spalla. Lui la strinse fra le braccia, forte, e l’amore di un tempo tornò a colmarlo, attutito dalla distanza ma limpido, come un’eco rimandata da una lontana catena di montagne. Era troppo tardi, adesso, per dirle tutto quello che sarebbe stato giusto dirle, e George provò più rimorso per la sua passata indifferenza che per i suoi tradimenti. E Jean disse con voce tranquilla: «Addio, caro» e accentuò la stretta delle sue braccia. Non ci fu tempo per la risposta di George, ma anche in quell’istante supremo lui ebbe una sensazione fuggevole di stupore nell’accorgersi che Jean sapeva che il grande momento era giunto. E l’isola salì incontro all’aurora. 21 L’astronave dei Superni arrivò scivolando lungo la sua strada, luminosa come il percorso di una meteora, attraverso la costellazione di Carena. Tra i pianeti esterni del sistema era cominciata la tremenda decelerazione, ciononostante, all’altezza di Marte la sua velocità era ancora vicina a quella della luce. Lentamente gli immensi campi di forza del Sole assorbirono il suo «momentum» mentre ancora le energie della superpropulsione segnavano il cielo con una scia infuocata lunga milioni di chilometri. Jan Rodricks tornava, di sei mesi più vecchio, al mondo che aveva lasciato ottanta anni prima. Questa volta non era più un passeggero clandestino in un nascondiglio segreto, ma se ne stava dietro i tre piloti (perché poi, si chiedeva, ne occorrevano tanti?), a guardare le configurazioni che si formavano e disfacevano sul grande schermo che dominava la sala comando. I colori e le forme che comparivano sullo schermo non significavano niente per lui, ma Jan immaginò che indicassero i dati che su una nave costruita dagli uomini sarebbero comparsi sotto forma di numeri. Ogni tanto però sullo schermo si vedevano grappoli di stelle, e Jan sperò di vedere presto inquadrata la Terra. Era contento di tornare nel suo mondo, nonostante tutti gli sforzi che aveva fatto per fuggirne. In quei pochi mesi, era maturato. Aveva visto tanto, viaggiato in regioni così lontane dell’universo che ora si consumava dal desiderio del suo mondo. Capiva perché i Superni avessero escluso la Ter-ra dalle stelle. L’umanità aveva ancora molta strada da percorrere prima di avere la minima parte nella civiltà che lui aveva ora appena intravisto. Che proprio si dovesse pensare, e l’idea gli ripugnava profondamente, che il genere umano non sarebbe mai potuto essere niente di più d’una specie inferiore, tenuta in uno zoo appartato coi Superni come guardiani? Era questo, forse, che Vindarten aveva voluto dire quando, proprio al momento della sua partenza, aveva dato a Jan questo ambiguo avvertimento: «Molte cose possono essere successe sul vostro pianeta durante il tempo trascorso. Potreste non riconoscere il vostro mondo, quando lo rivedrete.» Può darsi, pensò Jan. Ottant’anni erano molti, e per quanto lui fosse ancora giovane, con la mente agile, e possedesse una grande capacità di adattamento, poteva trovare difficoltà a comprendere tutti i cambiamenti che dovevano essersi verificati. Ma di una cosa era sicuro: gli uomini avrebbero voluto sentire la sua storia e sapere che cosa aveva visto della civiltà dei Superni. Lo avevano trattato bene, come del resto si era aspettato. Del viaggio verso Carena non aveva saputo niente: quando l’effetto dell’iniezione si era dissipato gradualmente e lui era tornato alla realtà, l’astronave era già entrata nel sistema dei Superni. Lui era strisciato fuori dal suo nascondiglio e si era accorto che la maschera dell’ossigeno non gli serviva. L’aria era densa e pesante, ma Jan poteva respirare senza difficoltà. Si era ritrovato entro la stiva enorme dell’astronave illuminata in rosso, fra innumerevoli casse e tutte le comuni parti di un carico che è logico aspettarsi di trovare a bordo di qualsiasi grossa nave mercantile degli spazi cosmici o del mare. Gli ci era voluta quasi un’ora per trovare la strada della sala di comando e rendere nota la sua presenza all’equipaggio. La loro mancanza di sorpresa lo aveva lasciato perplesso. Sapeva che i Superni dimostravano pochissimo i loro sentimenti, ma una reazione qualunque se l’era aspettata. Invece avevano continuato a fare quello che stavano facendo, osservando il grande schermo, costantemente solleciti alle innumerevoli manopole dei pannelli di comando. Ed era stato allora che aveva capito che si preparavano ad atterrare, perché, ogni tanto, l’immagine di un pianeta appariva in un lampo sullo schermo, più grande a ogni comparsa. Eppure non si avvertiva nessuna sensazione di movimento o cambiamento di velocità, e la gravità rimaneva assolutamente costante: un quinto circa di quella terrestre, aveva calcolato Jan. Le immense forze che muovevano l’astronave erano compensate con precisione ammirevole. E infine, all’unisono, i tre Superni si erano alzati dai loro sedili, e lui a-veva capito che il viaggio spaziale era concluso. Essi non avevano parlato né al passeggero né tra loro, e quando uno dei Superni gli aveva fatto cenno di seguirlo, Jan aveva capito che a quel capo della lunghissima linea che riforniva Karellen, non c’era nessuno che parlasse inglese. Essi lo avevano guardato con gravità mentre le porte enormi si aprivano davanti ai suoi occhi avidi. Quello era il momento supremo della sua vita: era il primo essere umano che vedeva un mondo illuminato da un altro sole. La luce vermiglia di NGS 549672 invase l’astronave, e davanti a lui apparve il mondo dei Superni. Che cosa si era aspettato? In realtà Jan non lo sapeva. Edifici immensi, metropoli con torri che si perdevano nelle nubi, macchine che superavano ogni immaginazione… tutto questo non l’avrebbe stupito. Invece vide una pianura anonima che si stendeva fino all’orizzonte incredibilmente e innaturalmente vicino, interrotta soltanto da altre tre astronavi immobili a qualche chilometro di distanza. Per un attimo Jan si sentì deluso, poi scosse le spalle rendendosi conto che in fondo avrebbe dovuto immaginare che uno spazioporto si trovasse in una zona deserta proprio come quella. Faceva freddo, per quanto in modo sopportabile. La luce dell’enorme sole rosso basso sull’orizzonte non era un pericolo per gli occhi umani, ed era sufficiente a vedere, ma Jan si chiese fra quanto tempo avrebbe cominciato a desiderare i toni verdi e azzurri. Poi vide il gigantesco calice che saliva nel cielo simile a un immenso catino messo vicino al sole. Lo guardò a lungo prima di capire che il suo viaggio non era ancora finito. Era quello il mondo dei Superni. Questo dove si trovava doveva essere il suo satellite, la base dalla quale partivano le loro astronavi. Lo avevano poi fatto salire su un’altra nave, non più grande di un comune aereo di linea terrestre. Con l’impressione di essere un nano, Jan si era arrampicato su uno dei grandi sedili, e aveva cercato di vedere dai finestrini qualcosa del pianeta al quale si stavano avvicinando. Il viaggio fu così breve che lui non ebbe il tempo di vedere molto del mondo che ingrandiva sotto i suoi occhi. Gli parve che i Superni ricorressero a un tipo di superpropulsione anche per navigare nelle vicinanze di casa, perché dopo pochi minuti già penetravano in una densa atmosfera fitta di nubi. Quando i portelli si spalancarono, uscirono tutti in una grande sala col soffitto a volta che scivolò a richiudersi in un attimo alle loro spalle cancellando ogni segno di porta. Passarono due giorni prima che Jan potesse lasciare quell’edificio. Era una merce inattesa, e loro non avevano un posto dove metterlo. Per peggiorare la situazione nessuno dei Superni capiva l’inglese, così era praticamente impossibile comunicare con loro. Jan si rese conto che mettersi in contatto con una razza extraterrestre non era semplice come spesso sembra nei romanzi di fantascienza. Farsi capire a segni risultò un fallimento, perché questo sistema è troppo legato a un tipo di gesti, di espressioni e di atteggiamenti, che non erano comuni alla razza umana e a quella dei Superni. Jan pensò che sarebbe stato assai deprimente che gli unici Superni capaci di parlare la sua lingua fossero tutti sulla Terra. Purtroppo poteva soltanto aspettare e sperare. Certamente qualche loro scienziato, qualche esperto di razze straniere, si sarebbe fatto vivo per occuparsi di lui. Oppure lui era così poco importante che nessuno se ne sarebbe preoccupato? Possibilità di uscire dalla costruzione non ce n’erano, dato che le grandi porte non possedevano congegno d’apertura visibile. Quando un Superno arrivava davanti alla porta, questa si apriva. Tutto qui. Jan aveva cercato di fare altrettanto agitando le braccia in alto con la speranza di interrompere un eventuale raggio che comandasse l’apertura, aveva tentato tutti i sistemi immaginabili, ma senza risultato. Un uomo dell’Età della pietra, sperduto in una città o in una casa moderna, si sarebbe sentito altrettanto impotente. Una volta aveva cercato di uscire seguendo un Superno, ma era stato cortesemente respinto indietro, e siccome non voleva assolutamente irritare i suoi ospiti, Jan non aveva insistito. Vindarten arrivò prima che Jan cominciasse a disperarsi. Il Superno parlava l’inglese malissimo e troppo in fretta, ma migliorò con rapidità. In pochi giorni, furono in grado di conversare a loro agio di qualunque argomento che non richiedesse un vocabolario specializzato. Non appena Vindarten si assunse la sua tutela, Jan smise di preoccuparsi. Non ebbe nemmeno l’opportunità di fare ciò che desiderava, perché doveva passare quasi tutto il suo tempo in sedute con scienziati Superni desiderosi di fare oscuri esperimenti con strumenti complicatissimi. Jan odiava quelle macchine, e dopo un esperimento con una specie di congegno ipnotico ebbe un mal di capo lancinante, che durò parecchie ore. Lui aveva tutta la buona volontà di collaborare, ma non era sicuro che gli studiosi Superni conoscessero le sue limitazioni mentali e fisiche. Passò parecchio tempo prima che riuscisse a convincerli che gli era indispensabile dormire a intervalli regolari. Fra un esperimento e l’altro, aveva fuggevoli visioni della città, cosa che gli permise di capire quanto sarebbe stato difficile per lui aggirarvisi all’interno. Strade nel senso terrestre erano praticamente inesistenti, e non sembrava nemmeno che esistessero veicoli di superficie. Era il pianeta, quello, di creature che potevano volare e che non temevano la forza di gravità. Capitava di trovarsi senza preavviso sull’orlo di un precipizio di centinaia di metri, o di scoprire che l’unica via d’ingresso a una stanza era un’apertura sistemata in alto in una parete. Da mille particolari Jan cominciò a rendersi conto che la psicologia di una razza fornita di ali era fondamentalmente diversa da quella di creature legate al suolo. Era uno spettacolo bizzarro vedere i Superni librarsi come immensi uccelli fra le torri della loro città, le possenti ali remiganti a lenti battiti ondosi. Un problema scientifico si nascondeva sotto quello spettacolo. Perché quello era un pianeta di notevoli dimensioni, molto più grande della Terra, eppure la forza di gravità era inferiore a quella terrestre, e Jan non riusciva a capire perché l’atmosfera fosse così densa. Interrogò Vindarten in merito e venne a sapere, come aveva vagamente immaginato, che quello non era il pianeta d’origine dei Superni. Costoro si erano evoluti su un pianeta molto più piccolo, per poi giungere alla conquista di questo, dopo averne modificato non soltanto l’atmosfera ma la stessa forza di gravità. L’architettura dei Superni era funzionale fino allo squallore. Mancavano decorazioni, ornamenti, non c’era niente che non avesse uno scopo, anche se quello scopo esulava spesso dalla comprensione di Jan. Se un uomo del medioevo avesse potuto vedere quella città illuminata di rosso e gli esseri che l’abitavano, indubbiamente avrebbe creduto di essere finito all’inferno. Perfino Jan, nonostante tutta la sua curiosità e l’obiettivo distacco dello scienziato, spesso si trovava sulle soglie di un terrore irragionevole. La mancanza di un solo punto di riferimento familiare può essere causa di estremo sconvolgimento anche per la mente più lucida e razionale. E poi c’erano troppe cose che Jan non riusciva a capire e che Vindarten non poteva, o non voleva nemmeno tentare di spiegargli. Ad esempio, cos’erano quelle luci saettanti di forma mutevole che percorrevano l’aria con moto talmente rapido da far dubitare della loro esistenza? Potevano essere tanto creature terribili e sacre, quanto semplici e unicamente spettacolari, ma banali, effetti luminosi come le insegne al neon della antica Broadway. Jan intuiva, inoltre, che il mondo dei Superni era pieno di suoni che lui non poteva sentire. Qualche volta riusciva a captare complessi temi ritmici che si stendevano lungo lo spettro percettibile alle sue orecchie, per svanire oltre i limiti dell’udibile. Vindarten aveva l’aria di non capire che cosa intendesse Jan per «musica», quindi lui non riuscì mai a soddisfare la propria curiosità su questo problema. La città tuttavia non era così sterminata come si poteva dedurre in rapporto a una civiltà tanto spettacolare; era certo più piccola di quello che non fossero New York o Londra al culmine della loro prosperità. Secondo quanto diceva Vindarten, esistevano parecchie migliaia di città come quella, sparse sulla superficie del pianeta, ognuna destinata a una funzione specifica. Sulla Terra, il parallelo più pertinente era una città universitaria, se non che il grado di specializzazione, lì, era infinitamente più accentuato. Tutta quella città, scoprì Jan, era dedita allo studio delle culture d’altri mondi. Durante una delle loro prime escursioni fuori della nuda cella in cui Jan viveva, Vindarten lo aveva condotto al museo. Ciò aveva dato a Jan il conforto psicologico di trovarsi finalmente in un luogo fatto per uno scopo che lui comprendeva. A parte le dimensioni, poteva benissimo essere un museo terrestre. C’era voluto molto tempo per arrivarci ritti su una grande piattaforma che calava verticalmente, come un pistone in un cilindro di lunghezza sconosciuta. Non c’erano leve o comandi visibili, e il senso di accelerazione al principio e alla fine della discesa era sensibilissimo. Evidentemente i Superni non sprecavano i loro preziosi campi di compensazione per semplici usi domestici. Jan si domandava se tutto il pianeta fosse percorso da tunnel come quello, e perché mai i Superni avessero limitato le dimensioni della città preferendo espandersi nel sottosuolo anziché all’aperto. Ma non riuscì mai a sciogliere nemmeno questo enigma. Si poteva passare tutta un’esistenza a esplorare quelle sale immense. Là dentro c’era il bottino d’innumerevoli pianeti, le conquiste di un maggior numero di civiltà che Jan avesse mai potuto immaginare. Ma non ci fu il tempo di vedere molto. Vindarten lo fece salire attentamente su un tratto di pavimento che a prima vista appariva come un disegno ornamentale; ma poi Jan si ricordò che non c’era niente di decorativo su quel pianeta, e in quell’istante, qualcosa che non era visibile lo afferrò gentilmente e lo spinse avanti. Lui passava ora di fronte alle grandi bacheche, davanti a panorami di mondi inimmaginabili, a una velocità di venti o trenta chilometri orari. I Superni avevano superato il problema della stanchezza che assale i visitatori dei musei. Lì non c’era bisogno di camminare. Dovevano aver percorso già parecchi chilometri, quando la guida di Jan lo afferrò di nuovo e con uno sforzo delle sue grandi ali lo strappò alla for-za misteriosa che li spingeva. Davanti a loro si stendeva una sala sterminata, seminuda, illuminata da una luce familiare che Jan non aveva più veduto dal momento in cui aveva abbandonato la Terra. Era fioca, così da non ferire la vista troppo sensibile dei Superni, ma era, inequivocabilmente, luce solare. Jan non avrebbe mai pensato che una cosa così semplice e comune e normale per un terrestre potesse mettergli in cuore tanta nostalgia. Quella era dunque la cripta che riguardava la Terra e la sua civiltà. Camminarono per qualche metro davanti a tesori artistici di vari secoli (una dozzina almeno), tutti raggruppati incongruamente insieme, macchine calcolatrici e asce paleolitiche, ricevitori televisivi e turbine a reazione di Erone di Alessandria. Poi una grande porta si aprì davanti a loro, ed essi entrarono nell’ufficio del Curatore della Terra. Era la prima volta che vedeva un essere umano? Era stato sulla Terra, oppure il mondo di Jan era soltanto uno dei tanti pianeti che dipendevano dalla sua tutela, e lui non sapeva nemmeno dove si trovasse esattamente? Certo il Curatore non parlava e non capiva l’inglese, perché Vindarten dovette fare da interprete. Jan aveva finito per passare parecchie ore là dentro, parlando in una macchina di registrazione fonica, mentre i Superni gli mostravano vari oggetti terrestri che, Jan se ne accorse con sua grande vergogna, lui non riuscì nemmeno a indovinare a cosa servissero. L’ignoranza di Jan sulla sua stessa razza e su quanto aveva fatto risultò enorme, e il giovane si chiese se perfino i Superni, nonostante le loro stupende qualità mentali, fossero riusciti a impadronirsi completamente della cultura umana. Vindarten lo guidò fuori del museo per una strada diversa. Volteggiavano senza sforzo a mezz’aria lungo grandi gallerie a volta, ma ora davanti alle creazioni della natura, non dell’intelletto. Jan pensò che il professor Sullivan avrebbe dato la vista per essere lì a vedere quale incredibile evoluzione si era svolta su centinaia di mondi. Poi si ricordò che probabilmente Sullivan era già morto. E poi, a un tratto, senza la minima avvisaglia, si trovarono su di una specie di loggia, altissima su di una vasta sala circolare del diametro di un centinaio di metri. Come al solito non esisteva parapetto, e Jan esitò un istante prima di accostarsi all’orlo. Ma Vindarten stava proprio sul limite estremo e guardava giù, del tutto a suo agio, e allora Jan avanzò cauto per raggiungerlo. Il pavimento della sala era una ventina di metri più basso. In seguito, Jan ebbe la certezza che la sua guida non aveva affatto voluto coglierlo di sorpresa e che il Superno era rimasto sbalordito davanti alla sua reazione. Jan aveva lanciato un urlo terribile, facendo un balzo indietro dall’orlo della loggia, nello sforzo involontario di nascondere alla vista ciò che si trovava là sotto. Fu solo quando l’eco soffocata dell’urlo che lui aveva lanciato si spense nell’aria densa che Jan si fece forza e tornò sull’orlo. Era senza vita, naturalmente, e non, come Jan aveva creduto in quel primo momento di panico, intento a fissarlo consapevolmente. Riempiva quasi tutto il grande spazio circolare, e la luce color rubino scintillava nelle sue profondità di cristallo. Era un occhio, uno solo, gigantesco. «Perché avete fatto tanto rumore?» chiese Vindarten. «Mi ero spaventato» rispose Jan, confuso. «Ma perché? Credevate di correre un pericolo, qui?» Jan disperò di poter spiegare che cosa fosse un riflesso condizionato e decise di non tentare nemmeno. «Qualunque cosa del tutto inaspettata è causa di paura» disse. «Fino al momento di analizzare una nuova situazione, è più prudente attendersi il peggio.» Il cuore gli batteva ancora con violenza, mentre lui riabbassava gli occhi sull’occhio mostruoso. Naturalmente, poteva anche essere enormemente ingrandito, come si faceva nei musei terrestri con microbi e insetti. Ma anche nell’istante in cui lo domandava, Jan sapeva, con una certezza sconvolgente, che quell’occhio era a grandezza naturale. Vindarten seppe dirgli ben poco: quello non era un campo del sapere in cui eccellesse, e del resto non ne era nemmeno curioso. Dalle descrizioni di Vindarten, Jan si fece la vaga idea di una bestia ciclopica che viveva tra le macerie planetarie di alcuni asteroidi gravitanti intorno a un sole molto lontano, lo sviluppo corporeo non impedito dall’attrazione gravitazionale, mentre per nutrirsi e sopravvivere dipendeva dall’acutezza e dal potere risolvente di quell’unico occhio. Sembravano non esserci limiti a quello che la natura poteva fare ove la necessità lo esigeva, e Jan provò una gioia del tutto irrazionale nello scoprire che c’era qualcosa che anche i Superni non intendevano superare. Avevano portato dalla Terra un capodoglio di massime dimensioni, ma quello era stato il limite. Lì, avevano preso soltanto l’occhio. E c’era stata la volta in cui Jan era salito, salito sempre più, fino a quan-do le pareti della piattaforma mobile s’erano dissolte in una opalescenza divenuta trasparenza cristallina. Se ne stava ritto, sembrava, senza sostegno, tra le più alte vette della città, senza la minima protezione dall’abisso. Ma non aveva provato maggior vertigine di quella che si provi da un aereo, perché non c’era alcun senso di contatto con il terreno troppo lontano. Era al di sopra delle nubi a occupare il cielo con una serie di pinnacoli di metallo o di pietra. Sotto di lui si muoveva il mare in ondate pigre, colorate di rosa dal riflesso delle nuvole. Su nel cielo c’erano due piccole lune sbiadite, non molto lontane dal sole. Quasi al centro del disco rosso era visibile una piccola ombra nera, perfettamente circolare. Poteva essere una macchina solare o un’altra luna. Jan mosse lentamente lo sguardo lungo l’orizzonte. La coltre di nubi si stendeva fino ai margini di quell’enorme pianeta, ma a una distanza incalcolabile si intravedeva una chiazza variegata, che sarebbe potuta essere l’insieme delle torri di un’altra città. Dopo avere osservato a lungo la chiazza, Jan riprese il suo giro d’orizzonte. Fu dopo aver percorso con lo sguardo un arco di 180 gradi che vide a un tratto la montagna. Non sorgeva all’orizzonte, ma oltre: un solo picco, che sembrava arrampicarsi sull’altro versante fin sopra gli orli del mondo, con le pendici inferiori nascoste, come il grosso di un iceberg è nascosto sotto il pelo dell’acqua. Jan tentò di valutarne le dimensioni, ma non gli fu possibile. Era difficile credere che potesse esistere una montagna così, anche su un mondo a bassa gravità come quello. Chissà se i Superni si divertivano a scalarne i fianchi e a volteggiare come aquile attorno ai suoi immensi picchi! Poi, nel modo più inatteso, la montagna cominciò a cambiare, lentamente. Quando l’aveva vista la prima volta, era d’un rosso cupo, quasi sinistro, con alcune frastagliature quasi invisibili presso la vetta. Stava cercando di mettere bene a fuoco la vista per distinguere le loro particolarità, quando si accorse che si stavano muovendo… Dapprima non voleva credere ai suoi occhi. Poi si costrinse a ricordare che tutti i suoi preconcetti non avevano senso, lì, e che non doveva permettere alla sua mente di respingere i messaggi che i sensi inviavano al cervello. E non doveva tentare di capire, ma solo guardare. Avrebbe, forse, capito più tardi, o forse mai. La montagna, Jan continuava a pensarla come tale, perché non c’era altra parola per descriverla, sembrava viva. Ripensò all’occhio mostruoso sepolto nella cripta sotterranea… ma no, era un’idea pazzesca. Non era vita or-ganica quella che stava osservando, non era nemmeno, sospettò, materia nel senso che lui dava al termine. Il fosco colore rosso si stava ravvivando, si faceva di una sfumatura più carica. Strisce d’un giallo brillante apparivano, tanto che per un attimo Jan ebbe l’impressione di avere sotto gli occhi un vulcano che rovesciasse fiumane di lava sulla piana sottostante. Ma quelle fiumane come si poteva vedere da occasionali sfavillamenti, da striature, avevano un moto ascensionale. Ora qualcos’altro sorgeva dai vapori di rubino intorno alla base della montagna: un anello enorme, perfettamente orizzontale, perfettamente circolare… e aveva il colore di tutto quello che Jan si era lasciato dietro, a una lontananza infinita. Il cielo della Terra non aveva mai avuto azzurro più celestiale. In nessun altro momento, sul mondo dei Superni, Jan aveva visto simili sfumature, e gli si strinse la gola alla nostalgia, alla malinconia che ispiravano. L’anello si dilatava a misura che saliva. Era più alto della montagna, ora, e la curva più vicina a Jan si espandeva verso di lui. È evidente, si disse Jan, che si trattava di un vortice di qualche genere… un anello di fumo che ha già parecchi chilometri di diametro. Ma l’anello non mostrò minimamente la rotazione che l’uomo si aspettava, e ora sembrava farsi sempre più solido a misura che la sua superficie aumentava. L’ombra passò rapida, molto prima che l’anello stesso, maestosamente, trascorresse altissimo, continuando a salire nello spazio, Jan lo osservò fino a quando non si fu ridotto in un esile filo azzurrognolo, difficile a distinguersi nel circostante rossore del cielo. Quando scomparve, alla fine, doveva già avere un diametro di parecchie migliaia di chilometri. E continuava a dilatarsi e a rafforzarsi. Jan tornò a guardare la montagna: adesso era d’oro, e perfettamente liscia. Forse era solo la sua immagine… adesso Jan era disposto a credere qualsiasi cosa… ma sembrava più alta e più stretta, e pareva che girasse su se stessa come una tromba d’aria. Poi Jan si ricordò della macchina fotografica. La sollevò all’altezza dell’occhio e cercò di puntarne l’obiettivo verso quell’enigma troppo assurdo e sconvolgente. Vindarten apparve improvvisamente davanti al suo obiettivo. Con fermezza implacabile, le grandi mani si levarono contro la lente, costringendolo ad abbassare la macchina fotografica. Jan non cercò di resistere; sarebbe stato inutile, naturalmente, ma a un tratto ebbe una paura mortale di quella cosa laggiù, ai confini del pianeta, e non volle più guardare. Non c’era stato mai altro nelle sue gite che gli avessero proibito di fotografare, ma Vindarten non gli fornì nessuna spiegazione. Il Superno dedicò invece molto tempo a farsi descrivere da Jan fin nelle più minute particolarità tutto quello che aveva visto. Fu allora che Jan si accorse che gli occhi di Vindarten avevano visto qualcosa di totalmente diverso; e fu allora che intuì, per la prima volta, che i Superni avevano a loro volta dei padroni. Adesso stava tornando al suo pianeta d’origine, e tutto lo stupore, la paura, il mistero erano lontanissimi. Gli sembrava che fosse la stessa astronave dell’andata, sebbene non di certo lo stesso equipaggio. Per lunghe che fossero le loro vite, era difficile credere che i Superni rimanessero lontani dalle loro case per tutti i decenni richiesti da una spedizione interstellare. L’effetto di dilatazione temporale della legge sulla relatività si verificava, naturalmente, nei due sensi. I Superni, quindi invecchiavano di soli quattro mesi durante il viaggio di andata e ritorno, ma nel frattempo i loro amici invecchiavano di ottant’anni. Se lo avesse desiderato, Jan avrebbe potuto probabilmente rimanere su quel pianeta per tutto il resto della sua vita. Ma Vindarten lo aveva avvertito che non ci sarebbero state altre astronavi in partenza per la Terra per parecchi anni, e lo aveva ammonito a cogliere quell’occasione. Forse i Superni si erano accorti che anche in quel breve lasso di tempo la sua mente era quasi giunta allo stremo delle sue risorse. Oppure poteva darsi che fosse diventato una seccatura, e loro non volessero perdere altro tempo per lui. Ma la cosa non aveva importanza, ora, perché la Terra era là, davanti a lui. L’aveva vista così centinaia di volte prima d’ora, ma sempre attraverso l’occhio staccato, freddo, della televisione. Ora finalmente era proprio lui, in persona, nello spazio cosmico mentre l’ultimo atto del suo sogno si stava compiendo e la Terra girava, ai suoi piedi, su se stessa, lungo la sua eterna orbita. La Luna era al suo primo quarto crescente, e quindi oltre metà della faccia visibile era ancora immersa nell’ombra. C’erano poche nuvole in cielo, solo alcune striature sparse lungo il corso dei venti. Lo scintillio della calotta polare artica perdeva la gara con l’accecante riflesso del sole sul Pacifico. Sì poteva credere che il pianeta avesse soltanto acqua: in quell’emisfero non si vedeva terra. Unico continente di cui si intuiva appena l’esistenza della nebulosa chiazza più scura sulla curva della Terra, era l’Australia. La nave si muoveva entro il gran cono d’ombra della Terra: la falce scintillante rimpicciolì, si ridusse a un arco sottile di fuoco, scomparve. Sotto non c’erano che le tenebre della notte. Il mondo dormiva. Fu allora che Jan si rese conto della differenza. Si vedeva la Terra laggiù, ma dov’erano… le scintillanti collane di lumi, dov’erano le chiazze formicolanti di luce che erano state le metropoli dell’uomo? In tutto l’emisfero in ombra non c’era una luce a respingere la notte. Scomparsi senza lasciare traccia i milioni di kilowatts che un tempo erano stati profusi senza risparmio verso le stelle. Era come guardare la superficie della Terra prima della comparsa dell’uomo. Questo non era il ritorno che Jan si aspettava; ma non poteva fare altro che guardare, mentre la paura dell’ignoto aumentava nel suo cuore. Qualcosa doveva essere successo… qualcosa d’inimmaginabile. E tuttavia l’astronave stava calando con un intento preciso lungo un’ampia curva che la riportava nell’emisfero illuminato dal sole. Non poté vedere niente dell’atterraggio vero e proprio, perché l’immagine della Terra a un tratto svanì, per essere sostituita sullo schermo da quell’incomprensibile trama di linee e di luci. Quando la visione fu di nuovo possibile, erano già sul terreno. S’intravedevano grandi edifici in distanza, tra macchine in moto con un gruppo di Superni intenti a guardare qualche cosa. S’udì il rombo soffocato dell’aria mentre la nave eguagliava la pressione, poi il rumore dei grandi portelli che si aprivano. Jan non attese: i silenziosi giganti lo guardarono con tolleranza, o indifferenza, uscire di corsa dalla sala comando. Era a casa, rivedeva la luce smagliante del suo sole, respirava l’aria che gli aveva gonfiato i polmoni quando era nato. La passerella era già stata abbassata, ma Jan dovette aspettare un momento per non venire accecato dalla luminosità esterna. Karellen stava ritto, un po’ discosto dai suoi compagni, presso un grande autocarro carico di casse. Jan non si soffermò a chiedersi come avesse fatto a riconoscere il Supercontrollore, e non si stupì di trovarlo del tutto immutato. Si può dire che fosse la sola cosa che gli apparve come se l’era immaginata. «Vi stavo aspettando» disse Karellen. 22 «I primi tempi» disse Karellen «potevamo andare fra loro senza pericolo. Ma non avevano più bisogno di noi: la nostra opera fu compiuta dopo che, radunatili tutti insieme, avevamo dato loro un continente. Guardate.» La parete davanti a Jan scomparve, e ora lui guardava da un’altezza di qualche centinaio di metri su una regione amenamente boscosa. L’illusione era così perfetta che per qualche istante Jan dovette lottare contro il capogiro. «Qui, è cinque anni dopo, quando ha avuto inizio la seconda fase.» Delle figure si muovevano in basso, e l’obiettivo calò rapido su loro come un uccello da preda. «Ciò che vedrete vi impressionerà» disse Karellen. «Ma non dimenticate che il vostro punto di vista non è più valido. Voi non state osservando dei ragazzi umani.» Eppure questa fu l’impressione che si offrì alla mente di Jan, e non bastò tutta la logica di questo mondo a dissolverla. Sarebbero potuti essere dei selvaggi intenti a una complessa danza sacra. Erano nudi e sporchi, con ciocche di capelli ingrommati che scendevano a coprire gli occhi. Ce n’erano di tutte le età, dai cinque ai quindici anni, calcolò Jan, ma tutti si muovevano con la stessa velocità, la stessa precisione, la stessa indifferenza per il mondo circostante. Poi Jan vide le loro facce. Dovette inghiottire un grumo di saliva più pesante del piombo e fare uno sforzo per non volgere altrove la testa. Erano facce più vuote di quelle dei morti, perché anche un cadavere ha qualche ricordo, inciso dallo scalpello del Tempo sui lineamenti, che parla quando le labbra sono diventate mute. Non c’era più emozione o sentimento su quelle facce, di quanti possano esserci sul muso di un serpente o di un insetto. Gli stessi Superni erano infinitamente più umani. «Voi state cercando qualcosa che non c’è più» disse Karellen. «Ricordatevelo, non hanno più personalità individuale delle cellule del vostro corpo. Ma collegati tra loro rappresentano qualcosa d’infinitamente più grande di voi.» «Ma perché continuano a muoversi così?» «Noi l’abbiamo chiamata la Lunga Danza» rispose Karellen. «Non dormono mai, capite, e questa è durata quasi un anno. Sono trecento milioni, che si muovono secondo un piano controllato su tutto un continente. Abbiamo analizzato questo piano senza posa, ma non significa niente, forse perché noi possiamo vederne soltanto la parte fisica… la piccola parte che è qui sulla Terra. Forse, quella che noi abbiamo chiamato la Supermente li sta ancora addestrando, li foggia in una sola unità prima di assorbirli nel suo essere.» «Ma come hanno fatto a nutrirsi? E che accadeva se urtavano contro qualche ostacolo, come alberi, massi, o se c’era una distesa d’acqua?» «L’acqua non rappresentava nessun pericolo: non potevano affogare. Se incontravano degli ostacoli e si facevano male, non se ne accorgevano. Quanto a nutrirsi… be’, c’erano tutti i frutti e la selvaggina che volevano. Ma ora si sono liberati di quella necessaria fonte di energia e hanno imparato ad attingere ad altre fonti.» La scena tremolò improvvisamente, come se un’onda di calore vi fosse passata sopra. Quando il tremolio cessò, il movimento della Lunga Danza era cessato anch’esso. «Guardate ancora» disse Karellen. «Sono passati altri tre anni.» Le piccole figure, così abbandonate e patetiche per chi non avesse conosciuto la verità, stavano immobili nella foresta, nel sottobosco, nelle pianure. L’obiettivo della macchina da presa andava instancabilmente dall’una all’altra: già le loro facce si fondevano in un solo stampo, un’unica forma. Aveva visto una volta alcune fotografie ottenute con la sovrapposizione di dozzine di riproduzioni, un esperimento per ottenere una faccia «media». Il risultato era stato così vuoto, così privo d’ogni carattere come questo. Sembravano tutti addormentati o in stato catalettico. Avevano gli occhi serrati, e sembrava che non si rendessero conto di ciò che li circondava più di quanto ne fossero consci gli alberi sotto cui erano radunati. Jan si chiese quali pensieri passassero nell’intricato reticolo di cui le loro menti erano, ora, solo… ma era meglio dire «già»… una massa di fili pronti a essere tessuti nella trama di un immenso arazzo. Un arazzo che ricopriva innumerevoli mondi e razze e continuava a espandersi. L’evento si verificò con una rapidità che abbagliò la vista e stordì il cervello. Jan stava guardando una bellissima regione fertile, assolutamente normale: unica stranezza le innumerevoli figure immobili sparse, ma non a caso, in lungo e in largo. E l’istante dopo, tutti gli alberi e l’erba, tutte le creature viventi che avevano abitato quella terra, erano scomparsi, in un guizzo. Non restavano che i laghi placidi, i fiumi serpeggianti, le alture ondulate, spoglie ora del loro verde mantello… e le figure mute, indifferenti, che avevano operato la distruzione. «Perché l’hanno fatto?» ansimò Jan. «Forse la presenza di altre menti li ha disturbati… anche le menti embrionali di piante e animali. Secondo noi, un giorno potrebbero scoprire che anche il mondo materiale è altrettanto molesto. E allora nessuno può dire quello che potrebbe accadere. Ora voi capite perché ci siamo ritirati dopo aver compiuto il nostro dovere. Noi stiamo ancora cercando di studiarli, ma non entriamo più nelle loro terre e non vi mandiamo nemmeno i nostri strumenti. Tutto quello che osiamo fare è osservarli dallo spazio.» «Tutto ciò è avvenuto molti anni fa» disse Jan. «Che cosa è successo in seguito?» «Ben poco. Non si sono mai mossi in tutto questo tempo, e non si danno pensiero né del giorno né della notte, né dell’estate né dell’inverno. Sono ancora intenti a saggiare i loro poteri; dei fiumi hanno cambiato corso, per esempio, e ce n’è uno che risale verso la fonte. Ma non hanno fatto niente che sembri avere uno scopo.» «E non si sono mai curati di voi?» «Mai, sebbene ciò non sia affatto strano. L’entità di cui sono parte sa tutto di noi. Sembra che non le importi che noi si cerchi di studiarla. Quand’essa vorrà che noi si parta o avrà un nuovo compito per noi, altrove, renderà manifesto nel modo più chiaro il suo volere. Fino a quel momento, resteremo qui, affinché i nostri scienziati possano raccogliere il maggior numero possibile di elementi.» Questa dunque, pensò Jan con una rassegnazione che superava ogni tristezza, era la fine dell’uomo. Una fine che nessun profeta aveva mai previsto… una fine che respingeva ogni ottimismo e insieme ogni pessimismo. E capì finalmente quanto fosse stato vano, in ultima analisi, il sogno che lo aveva attirato verso le stelle. Perché la strada verso le stelle si biforcava, e né l’una né l’altra delle due direzioni portava a una mèta che tenesse conto delle speranze o dei timori dell’uomo. Alla fine d’una delle due strade c’erano i Superni. Essi avevano conservato la loro individualità, i loro «io» indipendenti; possedevano coscienza di sé e il pronome «io» aveva un significato preciso nella loro lingua. Avevano emozioni e sentimenti, alcuni dei quali, almeno, erano comuni con i mortali. Ma erano in trappola, sopraffatti dall’inimmaginabile complessità di una galassia di centomila milioni di soli, e di un cosmo composto di centomila milioni di galassie. E alla fine dell’altra strada? C’era la Supermente, che stava all’uomo come probabilmente l’uomo stava all’ameba. Potenzialmente infinita, im-mortale, da quanto tempo andava assorbendo una specie dopo l’altra, a misura che si espandeva tra le stelle? Aveva essa pure desideri, aspirazioni e mète che intravedeva appena e avrebbe anche potuto non raggiungere mai? Ora aveva attratto nella sua essenza tutto ciò che la razze umana aveva dato. Questa non era tragedia, ma compimento. I miliardi di effimere scintille di consapevolezza che erano state l’umanità non sarebbero più passate sciamando come lucciole sullo sfondo della notte. Ma non erano vissute del tutto invano. L’ultimo atto, sapeva Jan, doveva ancora venire. Poteva essere il giorno dopo, o secoli nel futuro. Nemmeno i Superni lo sapevano. Adesso lui comprendeva il loro scopo, ciò che essi avevano fatto in favore dell’umanità e perché essi indugiassero ancora sulla Terra. Verso di loro provava un sentimento di grande umiltà, oltre che una profonda ammirazione per la pazienza inesauribile che aveva permesso loro di attendere tutti quegli anni lontano dal loro pianeta. Jan non aveva mai capito bene la strana simbiosi che legava la Supermente e i suoi tributari… Secondo Rashaverak, non c’era mai stata una volta nella storia della sua razza che la Supermente non fosse stata presente, sebbene non si fosse servita di loro che quando essi avevano raggiunto una civiltà scientifica, potendo così muoversi per gli spazi cosmici a ogni suo volere. «Ma perché ha bisogno di voi?» domandò Jan. «Con tutti i suoi fantastici poteri, potrebbe fare tutto ciò che vuole!» «No» disse Rashaverak «essa pure ha i suoi limiti. In passato, sappiamo, ha tentato di agire direttamente sul cervello di altre razze, influenzando così il loro sviluppo culturale. Ma non c’è mai riuscita, perché l’abisso che la divide dagli altri è troppo grande. Noi siamo gli interpreti, i tutori. La vostra è la quinta razza alla cui apoteosi abbiamo assistito. E ogni volta impariamo qualche cosa di più.» «È strano» disse Jan «che la Supermente abbia scelto voi per i suoi scopi, se è vero che non avete traccia di quei poteri paranormali che sono latenti nel genere umano. Come riesce a comunicare con voi e a rendervi noti i suoi desideri?» «È una domanda alla quale non posso rispondere, così come non posso dirvi la ragione per cui devo tenervi nascosti i fatti. Un giorno, forse, conoscerete una parte della verità.» Jan rifletté su questa risposta per qualche istante, ma sapeva che sarebbe stato inutile insistere nell’indagine. «Ditemi un’altra cosa, allora, che non mi è stata mai spiegata» riprese. «Quando la vostra razza venne per la prima volta sulla Terra, nella lontana preistoria della nostra civiltà, che cosa andò male? Perché eravate diventati per noi simbolo di male e di paura?» Rashaverak sorrise. Non che vi riuscisse bene come Karellen, ma questa volta la sua fu un’imitazione ben riuscita. «Nessuno mai l’ha indovinato, ma ora vedete bene perché non abbiamo mai potuto dirvelo. Soltanto un evento avrebbe potuto avere un simile effetto sull’umanità: e quell’evento non era all’alba della storia, ma alla sua fine ultima.» «Che cosa volete dire?» «Quando le nostre astronavi penetrarono nel vostro cielo, un secolo e mezzo fa, quello fu il primo incontro delle nostre due razze, sebbene vi avessimo studiato da lontano per secoli e millenni, naturalmente. Eppure voi ci avete temuti e riconosciuti, come sapevamo che avreste fatto. Non era precisamente un ricordo, il vostro; avevate già avuto la prova che il tempo è molto più complesso di quanto la vostra scienza abbia mai potuto prevedere. Vedete, quel ricordo non era del passato, ma del futuro: di quegli anni in cui la vostra razza avrebbe saputo che tutto era finito. Noi abbiamo fatto quello che abbiamo potuto, ma non era una conclusione facile da raggiungere. E poiché eravamo presenti, siamo stati identificati con la fine della vostra specie. Sì, anche se questa fine era lontana diecimila anni! È stato come se un’eco invertita fosse rimbalzata lungo il circolo chiuso del tempo, dal futuro al passato. Chiamatela quindi, più che una reminiscenza, una premonizione.» Era un concetto difficile da afferrare, e per un istante Jan lottò in silenzio contro la sua astrusità. Doveva esserci qualcosa di simile a una memoria della specie, memoria che in certo qual modo era indipendente dal tempo. Per essa, passato e avvenire erano una cosa sola; ecco perché migliaia di anni prima gli uomini avevano già avuto un’immagine deformata dei Superni, attraverso una nebbia di paura e di terrore. «Ora capisco» disse l’ultimo uomo. L’Ultimo Uomo! A Jan parve difficile pensare a se stesso in termine di ultimo individuo della sua specie. Quando si era lanciato nello spazio, aveva accettato la possibilità di un esilio eterno dalla razza umana, e la tristezza e lo sgomento non erano ancora scesi su di lui; a misura che gli anni fossero passati, il desiderio di vedere un altro essere umano avrebbe anche potuto sopraffarlo, ma per il momento la compagnia dei Superni gli impe-diva di sentire in pieno la sua solitudine. Esistevano ancora degli esseri umani sulla Terra, una decina di anni prima, ma non erano che superstiti degeneri, e Jan non aveva perduto niente non incontrandoli. Per motivi che i Superni non potevano spiegare, ma che Jan sospettava fossero soprattutto psicologici, non c’erano stati nuovi nati a sostituire quelli che erano scomparsi dalla scena. L’Homo Sapiens era estinto. Quelli che non si erano uccisi avevano cercato l’oblio in attività ancora più febbrili, in sport violenti, micidiali, spesso indistinguibili da vere e proprie guerre su piccola scala. E a misura che la popolazione si riduceva, i superstiti già vecchi si erano congregati, esercito disfatto che stringeva le file per la sua ultima ritirata. L’atto finale, prima che il sipario calasse per sempre, doveva essere stato illuminato da lampi di eroismo e di devozione, e oscurato da barbarie ed egoismi. Se si fosse concluso nella disperazione o nella rassegnazione, Jan non l’avrebbe saputo mai. C’erano tante cose a cui pensare. La base dei Superni si trovava a un chilometro circa da una villa deserta, e Jan passò dei mesi ad arredarla con accessori presi dalla città più vicina, situata a una trentina di chilometri di distanza. C’era andato in volo con Rashaverak, la cui amicizia, Jan sospettava, non era del tutto disinteressata. Lo psicologo dei Superni teneva ancora a studiare gli ultimi esemplari di Homo Sapiens. La città doveva essere stata evacuata prima della fine, perché le case, e anche quasi tutti i servizi pubblici erano ancora in buono stato di funzionamento. Non ci sarebbe voluto molto a riattivare i generatori, e le strade sarebbero state ancora una volta sfolgoranti d’una illusione di vita. Jan si baloccò con l’idea, poi l’abbandonò, perché gli parve morbosa. Spesso se ne andava a fare lunghe passeggiate sulle colline, pensando a tutte le cose che erano successe nei pochi mesi in cui era rimasto assente dalla Terra. Non aveva mai pensato, nel salutare Sullivan, ottant’anni prima, che l’ultima generazione della specie umana stava già nascendo. Che giovane idiota era stato! Eppure non era affatto sicuro di essere pentito di ciò che aveva fatto: se fosse rimasto sulla Terra, sarebbe stato testimone di quegli anni conclusivi, su cui il tempo aveva già steso il suo velo. Invece, era saltato al disopra di loro, nel futuro, e aveva avuto le risposte a quesiti che nessun altro uomo era mai riuscito a risolvere. La sua curiosità era quasi soddisfatta, ma a volte si domandava che cosa aspettassero i Superni e che cosa sarebbe accaduto quando la loro pazienza sarebbe stata fi-nalmente ricompensata. Ma la maggior parte del suo tempo lo passava con la rassegnazione soddisfatta dell’uomo che è alla fine di una lunga vita attiva. Seduto alla tastiera, colmava l’aria con le melodie del suo amatissimo Bach. Forse ingannava se stesso, forse non era che un trucco misericordioso della mente, ma sembrava ora a Jan che questo fosse quanto aveva sempre sognato di fare. La sua segreta ambizione aveva finalmente ardito emergere nella luce piena della coscienza. Jan era sempre stato un buon pianista… e adesso era il migliore. 23 Fu Rashaverak che portò a Jan la notizia, ma Jan l’aveva già indovinato. Nel cuore della notte un incubo l’aveva svegliato, e dopo, non era più riuscito a dormire. Non ricordava il sogno, cosa molto strana, perché riteneva che sempre si possa ricordare un sogno, se si cerca di farlo con molta tenacia appena svegli. Ma di quel sogno, tutto quello che riusciva a ricordare era di essere stato ancora bambino, su di una grande piana desolata, mentre una voce potente lo chiamava in una lingua sconosciuta. Il sogno l’aveva infastidito, e Jan si domandava se non fosse per caso un primo avvertimento che la solitudine cominciava a pesargli. Inquieto, uscì all’aperto e si mise a camminare sul prato incolto. La luna piena inondava la scena d’una luce argentea così brillante che Jan poteva vederci come di giorno. L’immenso cilindro rilucente della nave di Karellen si levava oltre gli edifici della base Superna, torreggiando su di essi e riducendoli a proporzioni di strutture umane, Jan guardò l’astronave, cercando di ricordare le emozioni che un tempo essa aveva destato nel suo cuore. C’era stato un giorno in cui quell’astronave era stata una meta irraggiungibile, il simbolo di tutto quello che lui non sarebbe mai stato in grado di conseguire. E ora non gli diceva più niente. Adesso tutto era quieto e silenzioso. Certo i Superni dovevano svolgere le loro attività in quel momento come sempre, ma non se ne vedevano attorno. Era come se lui fosse solo sulla Terra, e in un certo senso era così. Levò gli occhi alla Luna, in cerca di qualche caratteristica ben nota, su cui riposare la mente. Ecco gli antichi mari non obliati. Lui era stato per quarant’anni negli spazi cosmici, eppure non aveva mai posto piede su quelle piane silenti, pulvirulente, a meno di due secondi luce di distanza. Per un istante si di-vertì a cercare di scoprire il cratere di Tycho. Quando lo scoprì notò con stupore che quella chiazza luminosa era spostata dalla linea centrale del disco più di quanto avesse pensato. E fu allora che si accorse che l’oscuro del Mar delle Crisi mancava del tutto. La faccia che il satellite volgeva ora alla Terra non era quella che aveva guardato sul mondo dall’alba della vita. La Luna aveva cominciato a girare su se stessa. Ciò poteva significare soltanto una cosa. Sull’altro lato della Terra, in quel continente che avevano privato d’ogni vita a un tratto, essi venivano destandosi dal loro sonno estatico… E come un bambino svegliandosi stira le braccia per salutare il giorno, anch’essi stavano sciogliendosi i muscoli e si preparavano a giocare con i loro ritrovati poteri… «Avete indovinato esattamente» disse Rashaverak. «Non è più prudente restare, per noi. Può darsi che essi continuino a non accorgersi della nostra presenza, ma non possiamo correre rischi. Partiamo appena il nostro carico sarà ultimato… probabilmente fra due o tre ore.» Jan alzò gli occhi al cielo, come timoroso che qualche nuovo prodigio stesse per esplodere incandescente. Ma tutto era sereno: la Luna era tramontata, e solo qualche nuvola viaggiava altissima sulle ali del vento di ponente. «Non avrebbe poi una grande importanza, se si limitassero a gingillarsi con la Luna» aggiunse Rashaverak «ma se cominciassero a stuzzicare il Sole? Ci lasceremo dietro degli strumenti, naturalmente, per continuare a sapere che cosa accadrà.» «Io rimango» disse Jan a un tratto. «Ho visto abbastanza dell’universo. Non c’è che una cosa di cui sia curioso adesso: la sorte del mio pianeta.» Molto dolcemente, la Terra fu scossa da un lungo tremito, sotto i suoi piedi. «Me lo aspettavo» osservò Jan. «Se alterano la rotazione lunare, la somma del moto angolare deve pur andare a finire in qualche punto: così che la Terra rallenta. Non so che cosa mi renda più perplesso: se il come riescano a farlo, o il perché lo facciano.» «Stanno ancora giocando» disse Rashaverak. «Che logica può esserci nelle azioni di un bimbo? E sotto molti riguardi, l’entità che la vostra specie è diventata, è ancora bambina. Non è ancora pronta a unirsi con la Supermente. Ma lo sarà in breve, e allora avrete la Terra tutta per voi…» Non completò la frase, ma Jan lo fece per lui. «Se la Terra ancora esisterà, naturalmente.» «Vi rendete conto del pericolo… e tuttavia restate?» «Sì. Sono ormai tornato sul mio pianeta da cinque anni, o sono sei? Qualunque cosa accada, non avrò rimpianti.» «Noi speravamo» cominciò Rashaverak lentamente «che desideraste rimanere. Ce qualcosa che potreste fare per noi…» La scia luminescente della Superpropulsione rimpicciolì e scomparve in un punto indeterminato oltre l’orbita di Marte. Lungo quella rotta, pensò Jan, lui solo aveva viaggiato di tutti i miliardi di esseri umani che erano vissuti e morti sulla Terra. E nessuno l’avrebbe percorsa mai più. Il mondo era suo. Tutto quello che gli occorreva, tutti i possessi materiali che uno avesse mai potuto sognare erano là, a portata di mano. Ma che cosa poteva importargliene? Non temeva né la desolazione del pianeta abbandonato, né le presenze che ancora indugiavano là, in quegli ultimi istanti, prima di muovere alla ricerca della loro occulta eredità. Nell’inconcepibile rigurgito di quella partenza, Jan non si aspettava che lui e i suoi problemi sarebbero sopravvissuti a lungo. Bene, aveva fatto tutto quello che aveva desiderato fare, ora trascinare un’esistenza senza scopi su quel mondo deserto sarebbe stato un finale insopportabile. Avrebbe potuto partire coi Superni, ma a che scopo? Perché lui sapeva, ed era l’unico ad averlo saputo, che Karellen non aveva mentito dicendo: «Le stelle non sono per l’uomo». Volse le spalle alla notte e si avviò verso l’ampia entrata della base dei Superni. Le dimensioni di quella base non gli facevano più nessun effetto: la grandezza in se stessa ormai non lo toccava più. Le luci ardevano, rosse, alimentate da energie che avrebbero potuto alimentarle ancora per intere epoche geologiche. Sull’uno o sull’altro lato si allineavano macchine i cui segreti lui non avrebbe mai saputo, abbandonate dai Superni nella loro fuga preordinata. Passando davanti alle macchine, Jan arrivò ai piedi dei vasti gradini, si pose a salirli a grandi passi e infine giunse nella sala comando. Lo spirito dei Superni vi aleggiava ancora, le loro macchine erano ancora vive, obbedivano alla volontà dei loro signori, ora tanto lontani. Che cosa avrebbe potuto aggiungere lui, si chiese Jan, ai dati che essi già stavano lanciando nello spazio? Si issò sull’enorme sedile sistemandovisi il più comodamente possibile. Il microfono già funzionante aspettava lui, e doveva esserci l’equivalente di una telecamera già puntata, ma Jan non riuscì a individuarla. Oltre il ripiano zeppo di strumenti che per lui non avevano nessun significato, le grandi vetrate guardavano sulla notte piena di stelle che incorniciava una valle addormentata sotto un quarto di Luna e fiancheggiata dalle montagne. Un corso d’acqua attraversava la valle e scintillava qua e là dove la luce della Luna illuminava qualche mulinello attorno ai sassi. Uno scenario sereno e tranquillo. Forse era stato così alla nascita dell’uomo, ed era così adesso, alla sua morte. Lontano, oltre chissà quanti milioni di chilometri di spazio, Karellen aspettava. Faceva uno strano effetto pensare che l’astronave dei Superni stava allontanandosi dalla Terra quasi alla stessa velocità con cui il suo segnale l’avrebbe inseguita. Quasi la stessa velocità… Sarebbe stato un lungo inseguimento, ma alla fine le sue parole avrebbero raggiunto il Supercontrollore, e in quel modo Jan avrebbe saldato il suo debito. Si domandò quanta parte della sua avventura era dovuta a un preciso piano di Karellen e quanto all’improvvisazione del Supercontrollore. Quasi un secolo prima, Karellen gli aveva permesso deliberatamente di fuggire sull’astronave perché potesse poi tornare a compiere la missione che adesso gli era stata affidata? L’ipotesi sembrava troppo fantastica. Ma ora Jan era contento che Karellen fosse implicato in un complotto grandioso e complesso. Pur servendo la Supermente, il Superno la studiava con tutti gli strumenti a sua disposizione. E Jan sospettava che il Supercontrollore non fosse animato soltanto da curiosità scientifica. Forse, i Superni sognavano di potere un giorno liberarsi da quel loro asservimento. Un giorno, quando avessero imparato dalla potenza che ora servivano tutto quello che c’era da imparare. Che Jan potesse ora arricchire le cognizioni in loro possesso con ciò che stava facendo, sembrava incredibile. «Diteci quello che vedete» gli aveva detto Rashaverak. «Il quadro che raggiungerà i vostri occhi sarà duplicato dalle nostre telecamere. Ma il messaggio che raggiunge la vostra mente può essere diverso e rivelarci molte cose». Ebbene, Jan avrebbe fatto del suo meglio. «Per il momento, niente da riferire» cominciò. «Pochi minuti fa ho visto la scia della vostra astronave sparire nel cielo. La Luna è ancora piena, e quasi metà della sua faccia conosciuta è ora scomparsa alla vista della Terra… ma suppongo che questo lo sappiate già.» Jan fece una pausa, sentendosi un tantino ridicolo. C’era qualche cosa d’incongruo, perfino di lievemente assurdo, in quello che stava facendo. Stava vivendo il punto culminante di tutta la storia dell’umanità, e lui sembrava un radiocronista che stesse commentando una corsa di cavalli o un incontro di pugilato. Ma con una alzata di spalle, Jan scacciò questi pensieri. Probabilmente in tutti i momenti di grandezza non erano mancati attimi di sgomento o di sentimentalismo, l’unica differenza era che lui, adesso, non aveva nessuno con cui condividerli. «Da un’ora a questa parte» riprese «ci sono state tre lievi scosse di terremoto. Il loro dominio della rotazione terrestre sul suo asse deve essere straordinario, ma non è perfetto… Vedete, Karellen, trovo molto difficile dirvi qualche cosa che i vostri strumenti non vi abbiano già rivelato. Sarebbe potuto essere di qualche aiuto, se mi aveste fatto sapere qualche cosa di ciò che può accadere e quanto avrei dovuto aspettare. Se non succede niente riprenderò a trasmettere fra sei ore, secondo i nostri accordi… «Un momento! Devono essere rimasti ad aspettare la vostra partenza. Comincia ad accadere qualcosa. Le stelle si fanno più fioche. Sembra che un’immensa nuvola si stia dilatando, con estrema rapidità, per tutto il cielo. Ma non è realmente una nube: mi pare che abbia una specie di struttura… riesco a scorgere una vaga rete di righe e di fasce che continuano a cambiare posizione. È come se le stelle fossero impigliate in una ragnatela fantastica… «Ora tutta la rete comincia a risplendere, a pulsare di luce come se fosse viva. E credo che lo sia. O è forse qualcosa addirittura al di sopra della vita, quanto lo è la vita rispetto al mondo inorganico? «Il bagliore sembra spostarsi ora verso una parte del cielo… aspettate, mi sposto anch’io… all’altra vetrata. Sì, avrei dovuto immaginarlo; vedo un’immensa colonna di fuoco, a ponente. È lontanissima, dall’altra parte del mondo. So da dove sorge: essi si sono mossi, hanno cominciato il loro viaggio che li condurrà a essere parte della Supermente. Il loro tirocinio è finito: si lasciano alle spalle gli ultimi residui di materia. A mano a mano che il fuoco si leva sopra la Terra, la rete, vedo, si consolida, si precisa: in certi punti pare compatta come se di marmo, ma le stelle vi rifulgono sbiadite attraverso. «Ora me ne rendo conto! Non è esattamente lo stesso, ma la… non so come chiamarla… la cosa che ho visto saettare nel cielo del vostro mondo, Karellen, era simile, molto simile a ciò che vedo adesso. Era una parte della Supermente? Sono convinto che mi abbiate nascosto la verità perché, non avendo preconcetti, fossi un osservatore più obiettivo. Mi piacerebbe sapere che cosa vi trasmettono adesso le vostre telecamere, per fare un confronto con quello che la mia mente immagina che io veda! «Karellen, è in questo modo che la Supermente vi parla? Per mezzo di colori e di forme come queste? Ricordo lo schermo nella cabina di comando delle vostre astronavi, e i segni che lo percorrevano, comunicando con voi in un linguaggio visivo che solo i vostri occhi sapevano leggere. «Ecco, ora forme e colori assomigliano in tutto e per tutto alle cortine fantastiche, agli arabeschi di un’aurora boreale, e tutto danza e guizza fra le stelle. Tutto il paesaggio è illuminato, è più fulgido della luce del giorno. Colori dalle sfumature rosse, oro, verdi, si susseguono per il cielo, come un’immensa ruota che sfumi nell’infinito… È uno spettacolo per il quale non ci sono parole, e non par bello che io sia il solo a goderlo, di tutti i miei simili… non avrei mai creduto che colori come questi… «La tempesta si sta placando adesso, ma la grande rete c’è ancora. Credo che questa aurora sia stata soltanto un sottoprodotto delle sconosciute energie scaturite dai confini dello spazio… Un momento: osservo qualche altra cosa. Il mio peso diminuisce. Che cosa significa? Ho lasciato cadere una matita: cala lentamente al suolo. È successo qualcosa alla forza di gravità… c’è come un gran vento che si avvicina… Vedo gli alberi giù nella valle agitare pazzamente i rami. Naturalmente! L’atmosfera sfugge nello spazio. Pietre e pezzi di legno salgono lentamente verso il cielo, quasi che la Terra stessa volesse seguirli nella vastità dell’infinito. Vedo una gran nube di polvere, sollevata dalla sferza del vento. Diventa difficile vedere… forse tutto sarà più chiaro fra un istante, e io riuscirò a capire cosa sta succedendo. «Sì, ora va meglio. Ogni cosa mobile è stata spazzata via… le nuvole di polvere sono scomparse. Mi domando quanto ancora resisterà questo edificio. E diventa sempre più difficile respirare… devo parlare più lentamente… Ricomincio a vedere con chiarezza. La grande colonna di fuoco è ancora là che arde, ma si va restringendo, si assottiglia, sembra una tromba d’aria che stia risalendo tra le nubi. E… ma questo è difficile a dirsi, ma un istante fa ho sentito un’immensa onda di commozione rovesciarsi su di me. Non era gioia, non dolore, ma un senso di compimento, di pienezza, di consumazione. È stato frutto dell’immaginazione? O giungeva veramente dall’esterno? «Ora… e non può essere tutta immaginazione… ora il mondo sembra vuoto. Completamente, spaventosamente vuoto. L’impressione è quella di una radio che taccia di colpo mentre la si sta ascoltando. E il cielo è ancora limpido… la gran parete luminescente è scomparsa. Su quale mondo andrà, ora, Karellen? E voi sarete là a servirla ancora? «Strano: intorno a me è tutto come prima, non so perché, ma avevo pensato che…» Jan tacque. Per un istante cercò le parole adeguate, quindi chiuse gli occhi nello sforzo di dominarsi. Non c’era posto né per la paura né per altre cose del genere ora. Aveva un dovere da compiere, un dovere verso l’uomo e verso Karellen. Lentamente, come chi si desta da un sogno, cominciò a parlare: «Gli edifici intorno a me, il terreno, le montagne… tutto è come vetro… posso vedere attraverso di essi. La Terra si sta dissolvendo… il mio peso è quasi scomparso del tutto. Avevate ragione: hanno finito di baloccarsi coi loro giocattoli. «È questione ormai di pochi secondi. Ecco, le montagne si dissolvono come boccoli di fumo. Addio, Karellen, Rashaverak… mi dispiace per voi. Sebbene io non possa comprenderlo, ho visto che cosa è diventata la mia specie. Tutto quello che abbiamo saputo creare è andato lassù fra le stelle. Forse era questo che le antiche religioni volevano dire, ma hanno fatto una gran confusione: hanno creduto che il genere umano fosse importante, mentre eravamo solo una razza fra… voi forse sapete quante? Eppure noi siamo diventati qualcosa che voi non potrete mai essere. «Il fiume muore, laggiù. Nessun mutamento in cielo, però. Respiro a fatica. Che strano vedere la Luna che splende ancora là in alto. Sono contento che abbiamo lasciato la Luna, ma adesso sarà sola… «La luce! Da sotto di me… nell’interno della Terra… c’è tanta luce che sale, che sfolgora attraverso le rocce e il terreno, tutto… si fa più lucente… più lucente… accecante…» In un silenzioso scontro di luce, il cuore della Terra liberò le energie accumulate. Le onde gravitazionali attraversarono e riattraversarono il Sistema Solare, turbando appena, impercettibilmente, le orbite degli altri pianeti. Poi gli ultimi figli del Sole continuarono la corsa lungo i loro antichissimi sentieri, come i sugheri che galleggiano sulla superficie di un placido lago superano le lievi onde provocate dalla caduta di un sasso nell’acqua. Della Terra non restava più niente: essi ne avevano succhiato fino all’ultimo atomo di sostanza. La Terra li aveva nutriti per tutti i duri istanti della loro inconcepibile metamorfosi, così come il nutrimento racchiuso in un granellino di frumento alimenta la giovane pianta che si arrampica dal suolo verso il Sole. A seimila milioni di chilometri oltre l’orbita di Plutone, Karellen sedeva davanti a uno schermo che si era spento di colpo. Il rapporto dalla Terra era finito. E la sua missione era compiuta. Lui era in viaggio verso il mondo da dove era partito tanto tempo prima. Il peso dei secoli gravava su di lui, insieme con una tristezza che nessuna logica poteva dissolvere. Karellen non piangeva sull’uomo: la sua tristezza era per la sua propria specie, bandita per sempre dalla grandezza di forze che essa non poteva superare. Perché, nonostante tutte le loro conquiste, tutto il loro dominio dell’universo fisico, i fratelli di Karellen non erano niente di più d’una tribù che avesse trascorso la sua intera esistenza su una landa deserta, polverosa. Le montagne erano lontanissime, quelle montagne che avevano potenza e bellezza, dove il tuono volava sopra i ghiacciai e l’aria era limpida e pura. Quando in basso il suolo era già avvolto nel buio, il Sole camminava ancora su quei picchi avvolgendoli di gloria. Ma essi potevano soltanto guardare, perché i Superni non avrebbero mai potuto scalare quelle vette. Eppure Karellen sapeva che la sua razza sarebbe rimasta fedele sino alla fine, che avrebbe atteso senza disperare che si compisse il suo destino. Avrebbero servito la Supermente perché non avevano scelta, ma anche nell’asservimento non avrebbero perso le loro anime. Il grande schermo di comando lampeggiò a un tratto d’una luce rosacupo: meccanicamente, Karellen lesse il messaggio contenuto nelle sue linee cangianti. L’astronave stava abbandonando le frontiere del Sistema Solare; le energie che alimentavano la Superpropulsione scemavano rapidamente, ma avevano fatto il loro dovere. Karellen alzò la mano, e il quadro cambiò ancora una volta. Una sola stella molto fulgida apparve nel centro dello schermo. Nessuno avrebbe potuto dire, a quella distanza, se quel Sole avesse mai avuto pianeti o che uno di essi era andato or ora perduto. A lungo Karellen fissò l’immagine della stella lontanissima, e una infinità di ricordi percorse i meandri della sua grande mente. Poi salutò in silenzio gli uomini che aveva conosciuto, sia che lo avessero ostacolato sia che lo avessero aiutato nel suo compito. Nessuno osò disturbarlo o interrompere i suoi pensieri, e alla fine Karellen voltò le spalle al Sole che rimpiccioliva in distanza. FINE